Prima o poi doveva accadere, in mancanza di un’inversione di tendenza di cui purtroppo non si vedevano neanche i presupposti: i non votanti hanno superato i votanti. Nelle europee del 2019 l’affluenza alle urne era stata del 54,50, proseguendo una lunga scia negativa che però non era mai arrivata alla fatidica soglia della metà degli elettori. Il 49,69% di questa tornata rappresenta proprio questo salto finale. Non sono bastate le candidature dei leader e di alcuni protagonisti (nel bene e nel male) delle cronache, capaci di raccogliere preferenze in quantità industriale. Anche se poi manca sempre la controprova: quanti elettori potrebbero aver fatto scappare? E non è bastata la coincidenza con il voto nella metà dei Comuni italiani e in un’importante Regione, appuntamenti che solitamente registrano percentuali di affluenza più rilevanti, come pure è avvenuto stavolta nelle zone in cui il voto amministrativo si è affiancato a quello europeo. Non è bastato neanche il timido, troppo timido tentativo di consentire il voto ai fuori sede nei luoghi in cui vivono. Difficilmente si farà di più in futuro, se è vero che i pochi che hanno approfittato dell’opportunità hanno optato per i partiti di opposizione. No, non è bastato per frenare l’emorragia. E siccome dai polli di Trilussa in poi dovrebbe essere a tutti noto che le medie statistiche vanno prese con le pinze, non si può non notare il fatto che mentre nelle tre circoscrizioni centro-settentrionali i votanti hanno conservato la maggioranza assoluta, nell’Italia meridionale e delle Isole l’affluenza si è arenata rispettivamente al 43,72% e al 37,77%. E pensare che c’è chi dubita della necessità prioritaria di ricucire il Paese: non è solo una questione economica e sociale (e dici poco…), ma anche di democrazia.
Con una partecipazione elettorale così bassa bisognerebbe avere più pudore nell’utilizzare il termine “popolo” e nel definirsi suoi interpreti esclusivi. Bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di relativizzare tutti i risultati, anche i più significativi, come sono stati indubbiamente quelli di FdI e del Pd. Se i non votanti sono la maggioranza, anche i partiti più votati rappresentano soltanto delle minoranze più cospicue delle altre. Non c’è dubbio che la premiership di Giorgia Meloni esca decisamente rafforzata dal voto, ma quel che accadrà nella maggioranza di governo, tenuto anche conto del sorpasso di Forza Italia sulla Lega, è tutto da scoprire. Tra l’altro è un campo fortemente condizionato dalla partita delle riforme istituzionali, solo momentaneamente congelata per la scadenza elettorale. Così pure nell’altro schieramento si è rafforzata la posizione del Pd e di Elly Schlein in particolare, ma il risultato insoddisfacente del M5S potrebbe rendere ancora più problematica la costruzione di un’alternativa. Tanto più che i pentastellati potrebbero vivere come un’insidia la crescita dell’Alleanza Verdi e Sinistra. Da una parte e dall’altra per ora si naviga a vista, senza dimenticare che le dinamiche europee avranno un peso importante anche nella definizione dei nuovi equilibri nazionali.
Elezioni europee: i non votanti hanno superato i votanti
Prima o poi doveva accadere, in mancanza di un’inversione di tendenza di cui purtroppo non si vedevano neanche i presupposti: i non votanti hanno superato i votanti. Nelle europee del 2019 l’affluenza alle urne era stata del 54,50, proseguendo una lunga scia negativa che però non era mai arrivata alla fatidica soglia della metà degli elettori. Il 49,69% di questa tornata rappresenta proprio questo salto finale.