La miniserie “Eric” con Benedict Cumberbatch e “Kinds of Kindness” di Yorgos Lanthimos

“Eric”, sei episodi firmati da Abi Morgan su Netflix. Un crime-poliziesco a tinte fosche, che apre uno spaccato sulla New York anni ’80 e mette in scena il rapporto padre-figlio, quello tra il creativo Vincent e il preadolescente Edgar, in cerca di dialogo e riparazione. In sala dal 6 giugno con Searchlight Pictures “Kinds of Kindness”, il nuovo film del regista greco Yorgos Lanthimos: una “favola” nera, feroce, ammantata da riflessioni in chiave grottesca sulle relazioni umane

(Foto Netflix)

Sentieri smarriti. Un filo rosso che lega due proposte in evidenza tra cinema e piattaforma. Anzitutto su Netflix dal 30 maggio la miniserie a stelle e strisce “Eric”, sei episodi firmati da Abi Morgan con Benedict Cumberbatch, Gaby Hoffmann e McKinley Belcher III. Un crime-poliziesco a tinte fosche, che apre uno spaccato sulla New York anni ’80 tra criminalità, povertà bruciante, schiere di senzatetto, ma anche un allarmante traffico di droga, abusi e prostituzione. In questo quadro giocato sui toni del chiaroscuro, va in scena il rapporto padre-figlio, quello tra il creativo Vincent e il preadolescente Edgar, in cerca di dialogo e riparazione. Un racconto ombroso, che costeggia i territori abitati dal male, che regala però in ultimo suggestioni di speranza. Cumberbatch sorprende ancora una volta. Dopo il tappeto rosso al 77° Festival di Cannes è in sala dal 6 giugno con Searchlight Pictures “Kinds of Kindness”, il nuovo film del regista greco Yorgos Lanthimos. Protagonista è la Premio Oscar Emma Stone, affiancata da Jesse Plemons – miglior attore a Cannes77 –, Willem Dafoe, Margaret Qualley e Hong Chau. Una “favola” nera, feroce, ammantata da riflessioni in chiave grottesca sulle relazioni umane. Siamo però lontani da “Povere creature!”, più sul terreno dell’esercizio di stile. Il punto Cnvf-Sir.

“Eric” (Netflix, 30.05)

Gallese, classe 1968, Abi Morgan ha al suo attivo copioni importanti tra cinema e Tv: da “The Iron Lady” (2011), biopic su Margaret Thatcher che ha regalato il terzo Oscar a Meryl Streep, a “Shame” (2011) e “Suffragette” (2015), senza dimenticare la serie “The Split” (2018-22, adattata in Italia da Palomar in “Studio Battaglia”). La Morgan ha realizzato per Netflix “Eric”, intensa e sfidante miniserie originale che esplora più generi narrativi. Il perimetro è il crime-thriller con dinamiche da poliziesco: alla base c’è il rapimento di un minore e le indagini che si attivano per ritrovarlo; il campo del racconto si allarga poi rivelando una linea da family drama con inserti onirico-fantastici. Alla regia c’è Lucy Forbes, protagonista Benedict Cumberbatch (anche produttore), affiancato dai comprimari Gaby Hoffmann, McKinley Belcher III e dal giovanissimo Ivan Morris Howe.

La storia. New York, anni ’80. Vincent è un artista e doppiatore di pupazzi nel programma Tv “Good Day Sunshine”. È sposato con Cassie e i due hanno un figlio di dieci anni, Edgar. I rapporti in casa sono tesi, marcati da infelicità. Un giorno, dopo un’accesa discussione padre-figlio, Edgar scompare. A ben vedere, però, non è il primo ragazzo di cui si sono perse le tracce di recente. A indagare c’è il poliziotto afroamericano Ledroit, caparbio e determinato, che però sconta un razzismo ancora bruciante, costretto inoltre a celare la sua omosessualità. Le ore passano e di Edgar non sembrano esserci più tracce. Precipitato nello sconforto, Vincent inizia a vedere un mostro a dimensione umana: è Eric, il personaggio che popolava le fantasie del figlio…

La struttura narrativa è di certo aggrovigliata, composita. La cornice è quella di un crime fosco, che mette al centro sparizioni di minori, la vita ai margini della società, dai senzatetto alla comunità afroamericana e Lgbtq+. Lo sfondo sociale è quello degli Stati Uniti anni ’80, tra il sogno di una corsa economica, di una metropoli che vola veloce verso il successo facile e fagocitante, ma anche il realismo di un mondo a più velocità, che lascia indietro ampie sacche di popolazione. Accanto a tutto ciò, si muove la parabola di un uomo, di un sognatore, che è impantanato in una fase di depressione e infelicità: è Vincent, che Benedict Cumberbatch sagoma in maniera eccellente, un artista che incanta i bambini con le sue trovate e i suoi pupazzi, che però non sa comunicare con il proprio figlio. Con lui è ruvido, scontroso, replicando quell’atteggiamento che suo padre gli aveva riservato da piccolo. Quando Edgar scompare, Vincent cade in una vertigine di paura, solitudine e disperazione. Si aggrappa al lavoro e alla bottiglia, sbandando sempre di più; a scuoterlo dal torpore arriva – qui è l’irruzione del fantastico – un mostro dai tratti gentili che ricorda tanto il Gruffalò. È il mostro disegnato dal figlio, che però si materializza con fattezze reali davanti a lui e lo incita a darsi da fare per ritrovare Edgar. In questo la miniserie sembra richiamare anche il film “Sette minuti dopo la mezzanotte” (“A Monster Calls”, 2016) di Juan Antonio Bayona, dal romanzo per bambini di Patrick Ness.

E se la linea investigativa, da thriller poliziesco, affidata al detective Ledroit risulta interessante e serrata, anche se un po’ appesantita da un sovraccarico di tematiche narrative (corruzione nella polizia, abusi sui minori, razzismo, identità, condizione dei senzatetto, ecc.), a conquistare è di certo la relazione padre-figlio. La miniserie mette in campo il percorso di smarrimento di un padre che arriva a calcare la soglia della follia pur di ritrovare il figlio perduto, trovando alla fine la forza per rimettersi in piedi e riconciliarsi con l’esistenza. Un andamento narrativo non sempre fluido o facile, ma di certo interessante, che trova intensità e regala pennellate di fiducia nei volteggi finali. Con qualche riserva, dunque, per l’eccessiva stratificazione e complessità narrativa, a conquistare è lo stile originale del racconto, ma soprattutto la performance degli interpreti, su tutti Cumberbatch: magnifico! Miniserie complessa, problematica.

“Kinds of Kindness” (Cinema, 06.06)

Con “Kinds of Kindness” siamo distanti, decisamente distanti, dalla narrazione di “Povere creature!” (2024) come pure del precedente “La favorita” (2018), titoli con cui il regista greco Yorgos Lanthimos si è imposto all’attenzione di critica e pubblico, facendo incetta di riconoscimenti. Con “La favorita” ha conquistato il Gran premio della giuria a Venezia75 e fatto vincere a Olivia Colman il Premio Oscar come miglior attrice; con “Povere creature!” lo scorso settembre ha vinto il Leone d’oro a Venezia80, collezionando 11 candidature ai Premi Oscar, vincendone poi 4 tra cui quello per la sua musa Emma Stone, miglior attrice protagonista. A pochi mesi dal trionfo, Lanthimos è tornato in gara al Festival di Cannes con “Kinds of Kindness” targato Searchlight Pictures (universo Disney), film che vede protagonisti Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley e Hong Chau. Una “favola” nera, feroce, sviluppata in tre atti e ammantata da riflessioni in chiave grottesca sulle relazioni umane.

La storia. Il primo episodio ruota attorno a un uomo che prova a governare la propria vita, a prenderne il controllo; il secondo segue un poliziotto assalito dal dubbio che la donna che vive in casa con lui non sia davvero sua moglie; il terzo mette a tema le vicende di una giovane donna che si allontana dal marito e dalla figlia per aderire a una setta.

“Credo sia interessante osservare – ha spiegato il regista – il modo in cui una persona è convinta di essere in controllo della propria vita o di essere libera di decidere. Poi, quando le viene data la libertà assoluta, fatica ad affrontarla e a gestirla. È un microcosmo della vita reale”.

Entrando nelle pieghe del racconto emerge un trittico di storie tenute insieme dallo stesso filo tematico, appunto le relazioni umane giocate tra slanci di libertà, dinamiche di potere e desiderio di controllo. Il copione – scritto con Efthymis Filippou, con cui Lanthimos aveva già lavorato per “Alps”, “The Lobster” e “Il sacrificio del cervo sacro” – si muove ambiguo, fumoso, spiazzando lo spettatore con scelte marcate da raptus di violenza, follia o gratuità. L’impianto narrativo incede in maniera claudicante, oltre che problematica. Gli attori in campo si mettono generosamente a disposizione di Lanthimos che però sembra intento solo a orchestrare un circo di stranezze e bizzarrie dell’umano. Così “Kinds of Kindness” perde la sua carica provocatoria per smarrirsi in un vacuo esercizio di stile, di regia. Proprio per tali motivi, dopo il sorprendente “Povere creature!”, “Kinds of Kindness” risulta nella filmografia dell’autore più che un guadagno un passo falso, un inciampo. Peccato! Complesso, problematico.

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