Un mese fa la vicenda dei maltrattamenti sui minori detenuti da parte di alcuni agenti di custodia; ora un accenno di rivolta dietro le sbarre in circostanze e per motivi ancora da chiarire. Non c’è pace per l’Istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano. Ne parliamo con il cappellano, don Claudio Burgio.
Partiamo da due questioni ricorrenti per gli istituti di pena italiani: il sovraffollamento delle strutture e il personale sotto organico. Questo vale anche per il Beccaria?
Sì, questi problemi esistono, anche se adesso il ministero sta cercando di provvedere. L’istituto milanese è stato più volte visitato. Sia il dipartimento di giustizia minorile sia la figura del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, hanno preso seriamente in considerazione la situazione del Beccaria. Nel frattempo sono arrivate alcune decine di nuovi agenti e da poco è presente un nuovo comandante di polizia penitenziaria; inoltre si è provveduto ad avere un direttore stabile e non più facente funzione. Certamente siamo in una condizione di sovraffollamento: ciò vale peraltro in tutti i 17 carceri minorili in Italia. Il fenomeno più evidente è quello dei minori stranieri non accompagnati.
Cioè?
Si tratta di adolescenti o giovani provenienti da altri Paesi che hanno spesso alle spalle reati contro il patrimonio, legati alla sopravvivenza, con piccole rapine oppure spaccio: qui si innesta il “sogno migratorio” del facile guadagno, per sbarcare il lunario e ottenere magari qualche soldo da inviare a casa. Sono ragazzi provenienti soprattutto da Egitto e Tunisia, qualcuno dal Marocco: hanno non di rado conosciuto la traumatica detenzione in Libia, esposti a violenze di ogni genere. Per loro è difficile trovare comunità di recupero e le lunghe detenzioni fanno male anche sotto il profilo comportamentale, e lo si è visto… Mentre per i giovani italiani c’è qualche possibilità in più del rientro in famiglia o dell’accoglienza in comunità.
Il personale di custodia è preparato a stare accanto a questi giovani detenuti?
In generale il personale non è molto preparato perché si è ancora dell’idea che basti l’autorità della divisa per essere rispettati. Anche la rivolta di ieri è nata molto probabilmente da una perquisizione e da una serie di situazioni che hanno portato all’esplosione dei ragazzi. Va considerato che ci sono anche di mezzo i fatti recenti, tuttora sotto indagine della Procura. Talvolta le tensioni degenerano solo per una frase o un gesto eccessivi.
Ma le relazioni interpersonali tra gli stessi ragazzi come sono? C’è la possibilità di sentirsi parte di una comunità, di condividere le vicende personali?
In questo momento qui al Beccaria è tutto più difficile. Sentono che la società civile fuori non li vuole. È chiaro che implodono dentro un sistema chiuso. C’è chi spera di andare in comunità, di poter lavorare: ma spazi di questo genere al momento non ce ne sono.
Il “decreto Caivano”, che mira a reprimere la criminalità minorile, ha complicato la situazione?
Occorrerà farne una valutazione approfondita con il tempo, trattandosi di un provvedimento recente: ma sicuramente i numeri dei ragazzi detenuti sono aumentati in maniera esponenziale, mentre non è cresciuto il numero dei reati. Ciò vuol dire che il dispositivo del carcere è stato applicato con maggiore frequenza. Gli istituti devono fra l’altro “assorbire” ragazzi tossicodipendenti o psichiatrici, rendendo le condizioni interne spesso ingestibili. Qui emerge il fattore educativo: sarebbe necessario puntare a dei progetti di accompagnamento e di recupero, dando nuove possibilità a questi ragazzi che per lo più hanno alle spalle storie personali davvero difficili. Ma le comunità chiudono, di educatori ce n’è sempre meno, malpagati: comprensibilmente chi vorrebbe lavorare in contesti così difficili?
Quale il ruolo dei cappellani? C’è domanda di accompagnamento umano o spirituale?
In questo momento il Beccaria è abitato quasi esclusivamente da ragazzi provenienti da Paesi musulmani: per cui si instaura un dialogo inteso a interpretare la propria storia, la propria vita anche religiosa e culturale. In questa chiave si può leggere la mia presenza e quella di don Gino Rigoldi. Poi ci sono anche dei ragazzi cristiani che cercano una loro strada interiore. C’era, ad esempio, un giovane che mi portava dei foglietti bianchi perché io gli scrivessi delle preghiere… Cerchiamo di cogliere quelle domande aperte sull’esistenza.
Se lei potesse formulare una richiesta alla società, e alla stessa Chiesa, per questi giovani, cosa domanderebbe?
Chiederei più coraggio. Qualcuno ci ha insegnato proprio qui a Milano la “follia della carità” (il riferimento è a don Virginio Colmegna – ndr), vincendo le paure, assumendo ciò che la realtà ci mette di fronte. Se il nostro tempo è abitato da queste situazioni giovanili tormentate, fragili, trasgressive, sofferenti, è un segno che dobbiamo comprendere, con capacità di ascolto, con gesti di accoglienza i desideri più profondi, andando aldilà del diffuso allarmismo. Serve uno sguardo – e dei progetti – in grado di produrre opportunità concrete a favore di questi ragazzi.