Con il suo “Rapporto annuale 2024” diffuso alcuni giorni fa, l’Istat ha rilevato che “ai persistenti ritardi economici si associano manifestazioni di fragilità più diffuse nei territori e nella popolazione del Mezzogiorno”. I dati, relativi a diversi ambiti – economia, occupazione, retribuzioni, istruzione e formazione nel mercato del lavoro, condizioni economiche delle famiglie e qualità della vita, povertà, giovani e anziani, infrastrutture e servizi – hanno non solo messo in evidenza i ritardi dell’Italia rispetto agli altri Stati Ue ma hanno confermato all’interno del Paese profonde disuguaglianze sociali e territoriali. Con Carmelo Petraglia, professore di Economia politica all’Università della Basilicata e consigliere scientifico della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), il Sir ha cercato di indagarne i motivi e individuare possibili soluzioni, considerata anche la prossima approvazione della legge sull’autonomia differenziata.
Professore, l’Istituto nazionale di statistica ha individuato tra gli elementi di fragilità del Mezzogiorno il calo demografico, l’accesso ai servizi più svantaggioso, la bassa solidità economica. È su questo terreno che aumenta la forbice tra Regioni settentrionali e meridionali del Paese?
Il divario Nord-Sud è il riflesso di disuguaglianze tra cittadini presenti in tutto il Paese, ma che al Sud sono più intense e persistenti.
Se si guarda al tasso di occupazione giovanile, ad esempio, anche il Nord è in ritardo rispetto alla media europea (52 contro 58%), ma il dato al Sud crolla al 32%. Lo stesso vale per il tasso di occupazione femminile, più basso a Sud soprattutto per le donne con figli per la carenza di servizi per l’infanzia.
Anche il gelo demografico è una questione nazionale, ma il Nord riesce in parte a compensare spopolamento e invecchiamento con gli arrivi dall’estero e dal Mezzogiorno, soprattutto di giovani laureati. Dal Sud, invece, si parte e basta: una perdita di più di un milione di abitanti negli ultimi 20 anni, di cui oltre 800mila under 35 (300mila laureati).
L’Istat però fotografa un Sud reattivo nella ripresa post-Covid…
Nella ripresa post-Covid il Sud è cresciuto come il Nord, come non era mai avvenuto prima, grazie al supporto attivo delle politiche a lavoro e imprese. È la dimostrazione che
il Sud è in grado di reagire come il resto del Paese quando viene messo nelle condizioni di farlo, a differenza di quanto avvenuto con i tagli dell’austerità dopo l’ultima grande crisi.
Restano però i ritardi strutturali sui quali le riprese cicliche non sono in grado di incidere, soprattutto quella che ci siamo ormai lasciati alle spalle che è stata sostenuta da scostamenti di bilancio inediti e irripetibili e si è concentrata nei servizi a basso valore aggiunto e nelle costruzioni, mentre il contributo dell’industria al Sud è stato molto deludente.
Anche l’occupazione è cresciuta, soprattutto al Sud.
È vero, anche la ripresa occupazionale al Sud è stata senza precedenti e più sostenuta che al Centro-Nord.
Ricordiamo però che, a differenza del resto del Paese, non è diminuita la povertà, perché tra le questioni nazionali che al Sud diventano emergenze c’è l’eccesso di flessibilità nel mercato del lavoro e la diffusione del lavoro povero: a causa dei bassi salari e dei tempi di lavoro ridotti, la ripresa occupazionale non argina il disagio sociale.
Ora però è in discussione la Decontribuzione Sud. Quali i possibili effetti?
La Decontribuzione Sud ha aiutato a sostenere la domanda di lavoro delle imprese durante l’emergenza Covid. Poi durante la crisi energetica ha in parte compensato i rincari della bolletta energetica delle imprese del Sud, più esposte allo shock.
Lo stop avrebbe effetti di freno alla ripresa occupazionale che sta mostrando segnali di rallentamento. Da misura generalista, come era necessario che fosse in fase emergenziale, andrebbe resa ora più selettiva per tipologia di occupati e ambiti produttivi; penso in particolare alle competenze e alle filiere produttive più funzionali alle priorità in via di definizione nel Piano strategico della Zes unica (Zone economica speciale, ndr).
Sempre l’Istat ha messo in evidenza come il Centro Italia, a partire dal Pil pro capite, ha fatto registrare negli ultimi anni un peggioramento dei parametri, avvicinandosi ai dati delle Regioni del Sud. Per chi studia con attenzione sviluppo e condizioni economiche del Mezzogiorno, che segnale è? Che lettura dare a questa dinamica?
La “questione del Centro” è stata indicata dalla Svimez come il segnale più evidente della frammentazione dei processi di crescita regionali che si è intensificata nel ventennio del declino italiano, in un contesto di generalizzato allontanamento di tutte le aree produttive del Paese dagli standard competitivi europei.
Nel 2000 il Pil pro capite nelle Regioni del Centro superava la media Ue27 di circa 37 punti percentuali, nel 2021 di soli 2 punti. L’Umbria ha perso 69 posizioni nella graduatoria delle regioni europee per Pil pro capite, le Marche 40. Questo arretramento è legato alla crisi della Terza Italia, del modello distrettuale del “piccolo è bello” cresciuto grazie alle svalutazioni della lira finite con l’arrivo dell’euro che ha spiazzato la competizione di costo e svelato i limiti di una struttura produttiva priva di grandi imprese capaci di competere con l’innovazione.
Ha ricordato il ruolo delle politiche nel sostenere la ripresa. Cosa non ha funzionato e non sta funzionando nelle politiche di coesione?
Se le disuguaglianze aumentano, una parte delle responsabilità è chiaramente delle scelte sbagliate delle politiche. Ma se vogliamo capire cosa non ha funzionato e come correggere il tiro non possiamo limitarci a puntare il dito contro le politiche di coesione.
La politica di coesione dovrebbe essere “aggiuntiva”,
cioè destinare alle Regioni in ritardo ulteriori investimenti rispetto alle politiche generali, quelle che dovrebbero garantire pari condizioni di accesso ai servizi essenziali su tutto il territorio nazionale. Ma
lo Stato ha disinvestito dall’istruzione, dalla sanità, dal welfare per troppi anni, remando contro la convergenza regionale perché i tagli hanno colpito i territori in ritardo e a maggior fabbisogno, soprattutto al Sud.
La politica di coesione ha tanti limiti, ma negli anni è stata sovraccaricata di obiettivi che dovrebbero essere competenza delle politiche generali. Obiettivi che non è in grado di raggiungere per la debolezza dei suoi strumenti di programmazione e attuazione, in buona parte nelle mani delle Regioni, e perché dovrebbe completare, con interventi mirati, una strategia dal respiro nazionale che però manca.
Ad esempio?
Senza una politica industriale nazionale orientata all’ampliamento e all’ammodernamento della base produttiva meridionale, le singole strategie industriali delle Regioni del Sud non sono in grado, da sole, di orientare gli investimenti verso produzioni a maggiore valore aggiunto, con domanda di lavoro qualificato e meglio retribuito.
Il Pnrr aveva tra gli obiettivi anche quello di contribuire alla riduzione dei divari territoriali. È così?
Il Pnrr aveva finalità di riequilibrio territoriale, era questo il mandato europeo del Next Generation Eu: fare leva sulla coesione economica, sociale e territoriale per crescere. Questo richiedeva una programmazione degli investimenti basata su target territoriali, che invece sono stati fissati solo a livello nazionale, come nel caso del 33% per gli asili nido. Lo stesso vale per tutti gli investimenti per la scuola. Si è deciso invece di affidarsi al sistema dei bandi: i comuni sono stati chiamati a competere per ricevere le risorse. Il risultato è che
gli investimenti non sono arrivati dove ce ne era più bisogno e che il Pnrr non basterà a colmare i divari.
Negli ultimi giorni si è manifestata la preoccupazione che buona parte dei definanziamenti annunciati colpirà il Sud. È così? Con che conseguenze?
Il Pnrr è stato rivisto per accelerare la spesa, ma per raggiungere questo obiettivo molte risorse sono state dirottate dagli investimenti pubblici a misure di incentivi alle imprese. Sono stati rivisti al ribasso alcuni target come il numero di nuovi posti di asili nido. Sono stati ridimensionati anche gli impegni su investimenti strategici come i collegamenti ferroviari Napoli-Bari e Palermo-Catania. Se da tutto ciò risulterà indebolita la finalità di coesione territoriale del Pnrr, non sarà solo il Sud a risentirne, ma
tutto il Paese che ha estremo bisogno di valorizzare il contributo delle sue Regioni più deboli alla crescita.
Su quali priorità dovrebbero essere orientate le politiche generali allora?
Con il ritorno delle regole del Patto di stabilità e crescita, l’Italia si è già collocata su un percorso di significativo contenimento della spesa pubblica. Diventano decisive le scelte sull’allocazione delle risorse disponibili.
Le priorità dovrebbero essere due: programmare una politica industriale attiva a supporto dell’integrazione dell’industria meridionale nelle filiere strategiche europee della transizione green e investire in infrastrutture sociali, in istruzione e sanità.
Come si colloca in questo contesto la prossima approvazione della legge Calderoli sull’autonomia differenziata?
In contraddizione, perché indebolirà le politiche nazionali, renderà il Paese meno competitivo e causerà un aumento delle disuguaglianze tra cittadini. Non è l’autonomia in sé il problema, ma l’autonomia senza responsabilità della legge Calderoli basata sul trasferimento di risorse senza verifiche sulla capacità delle Regioni richiedenti di assicurare servizi migliori ai propri cittadini.