“Suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi. Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale. Su questo versante, la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile, nella consapevolezza che ‘il Paese non crescerà, se non insieme’, come peraltro già ricordato in passato (Cf. ‘La Chiesa italiana e le prospettive del Paese’, 1981)”. Sono parole del card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente delle Cei, nell’introduzione ai lavori dell’ultimo Consiglio permanente. Nella conferenza stampa conclusiva del Cep, anche l’arcivescovo di Cagliari e il segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, si è espresso: “C’è preoccupazione e perplessità tra i vescovi per un allargamento delle differenze che possono far cadere in un particolarismo istituzionale”. E ha assicurato: “Presto svilupperemo una posizione unitaria su questo tema”. Sul tema dell’autonomia differenziata ci sono stati anche interventi di altri vescovi e di alcune Conferenze episcopali regionali. Sulle preoccupazioni riguardanti le ricadute dell’autonomia differenziata abbiamo sentito il sociologo Maurizio Fiasco.
La questione è complessa…
Colpiscono la complessità del tema, la semplificazione polemica che ne viene data e la scarsissima informazione che è stata data ai cittadini affinché si responsabilizzino, visto che siamo davanti a scelte cruciali, come la riscrittura di un patto costituzionale, un patto di comunità e quindi dal primo all’ultimo cittadino deve essere informato e coinvolto. Mi colpisce anche il modo anomalo e improvvisato con cui la questione è venuta alla ribalta, a mio giudizio: si pensava che i referendum improvvidi di Lombardia e Veneto del 2017 e la risoluzione del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna dello stesso periodo non potessero avere un seguito, tanto che le conseguenze sono rimaste in stand-by per 7 anni. Negli ultimi giorni del governo Gentiloni, nel 2018, si siglò un’intesa con le Regioni che avevano svolto il referendum consultivo o che avevano approvato una risoluzione, era alla vigilia delle elezioni, è stato un non prendersi la responsabilità di rispedire al mittente per limiti di costituzionalità la mossa delle Regioni. La legislatura successiva ha messo tutto da parte e si ripresenta la questione oggi, quando governa una coalizione che presenta matrici culturali e ideologiche tra loro confliggenti: una matrice popolare liberale, che su questa operazione non solo è tiepida ma dovrebbe essere contraria, una matrice populista secessionista, una matrice moderata autoritaria a forte tensione ideologica, tre matrici tra loro molto distanti che stanno insieme per un patto, all’interno del quale c’è il via libera a un’operazione che si pensava dovesse rimanere al palo, come era già avvenuto in passato. Non accendere i riflettori sulla sostanza di quello che è in discussione serve a mettere la sordina alle profonde differenze di matrice, si tratta di un espediente puramente di potere. Non solo.
Ci dica…
Colpisce lo scarto tra le conseguenze a lunghissimo termine, strategiche e impattanti sui fattori che tengono unita una comunità composta da venti Regioni con culture differenti e lo scarso rilievo e impegno a rendere comprensibili i termini della questione. Il testo uscito in prima lettura è assai simile a quello depositato. Il passaggio parlamentare – malgrado la mole di interventi di Istat, studiosi, amministrazioni, Banca d’Italia, Svimez, Fondazione Gimbe, sono una settantina di testi uno più importante dell’altro – evidenzia che di fatto tutta questa mole di documenti abbia inciso pochissimo, tutto si è ridotto alla questione della contabilità, di come calcolare il trasferimento delle risorse per i livelli essenziali di prestazioni, come se lo scambio fosse puramente di tipo monetario. Quindi colpisce l’assenza di un dovuto sforzo per rendere comprensibile a tutti i cittadini il merito del cambiamento che si stava prospettando. Non è poca cosa l’omesso sforzo di adeguata estensione e trasparenza per rendere comprensibile e responsabilizzare i cittadini sul merito del cambiamento che si stava imponendo e questo in una questione di rango costituzionale. D’altra parte, la poca informazione da parte del mondo politico si capisce anche perché a innescare il processo sono due Regioni di Centro Destra, Lombardia e Veneto, e una di Centro Sinistra che è l’Emilia Romagna. Questo è un paradosso: sono tre Regioni ricche, ma di diverse coalizioni. Una di esse, l’Emilia Romagna, sta ancora soffrendo dell’alluvione dello scorso anno e della mancata ricostruzione dopo l’alluvione, paradossalmente la stessa Regione chiede l’autonomia a fronte di una solidarietà nazionale che si rende ancora di più drammaticamente necessaria.
La Chiesa, invece, denuncia gli aspetti preoccupanti dell’autonomia differenziata…
Infatti, sul tema sono intervenuti rappresentanti della Chiesa italiana e alcune Conferenze episcopali regionali, interventi che hanno anche una valenza di una pedagogia politica: sono documenti rigorosi ma nello stesso tempo semplici da capire, hanno la chiarezza di una ispirazione costituzionale e allo stesso tempo il merito di ridurre la questione all’essenziale.
Cosa dobbiamo aspettarci dall’autonomia differenziata?
L’autonomia differenziata è un’operazione che riduce fortemente la responsabilità dello Stato centrale per diritti che sono scritti in Costituzione; poi c’è tutta la devoluzione di funzioni di controllo di legittimità e di funzioni costituzionali a organismi amministrativi. Le questioni saranno affrontate nella negoziazione tra lo Stato centrale e le Regioni da cui scaturiranno dei Dpcm – tipo quelli del Covid -, dei quali il Parlamento verrà informato, ma senza alcun poter vincolante, se non di una moral suasion. Poi ci sono le preoccupazioni sostanziali che sono il venir meno dei fattori che tengono unito il Paese dal punto di vista sociale, morale, dei valori, ma anche dal punto di vista istituzionale. L’unità dello Stato diventa un valore che dal discorso di Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace all’Assemblea costituente e a tutto il periodo del centrismo ispira la miracolosa ricostruzione del Paese post bellica. L’unità dello Stato italiano reca molto netta l’impronta al valore che i cattolici nella ricostruzione hanno voluto imprimere a questa unità. Questo, ad esempio, lo sottolinea in diversi passaggi il documento della Conferenza episcopale calabra (Cec) sulle preoccupazioni legate all’autonomia differenziata: è una lettura dall’interno che danno i vescovi, perché viene da una componente che è stata decisiva per la realizzazione del patto unitario, dalla Costituente alla ricostruzione. Si denuncia la discordia che in seno alla comunità viene innescata, con la preoccupazione del venir meno dell’unità del Paese. Il documento della Cec, facendo riferimento ad alcuni documenti della Chiesa italiana nel tempo – pubblicati rispettivamente nel 1948, nel 1989 e nel 2010 -, ricorda che l’unità d’Italia si basa su presupposti solidaristici e democratici e sul contrasto dei dualismi sociali ed economici.
I rischi di passi indietro sono concreti?
Tutto il disegno della ricostruzione, fino alla crisi della prima Repubblica, era orientato a porre fine ai dualismi di sviluppo tra Nord e Sud del Paese, quindi aveva come denominatore comune creare un unico Paese dalle Alpi alla Sicilia: le politiche economiche e le modificazioni legislative erano tutte all’insegna di contrastare i dualismi. Con l’autonomia differenziata vengono rilanciati quei dualismi sociali, di sviluppo, di esigibilità dei diritti di cittadinanza che per quarant’anni le classi dirigenti della ricostruzione si erano sforzati, pur tra mille errori, di eliminare. E questo oggi in virtù di un opportunismo. Quello che rende a rischio l’Italia è la frantumazione che c’è nella classe dirigente, al di là del fatto che sia al governo o all’opposizione. Dal ’48 in poi noi abbiamo goduto di una unità della classe dirigente, che si divideva su programmi, su alcune opzioni, su aspetti particolari, ma che sui tratti fondamentali di rendere compiuto il disegno della Costituzione si ritrovava. È inutile nasconderlo, le materie che vengono messe in discussione sono di capitale importanza: la sicurezza sul lavoro, la salute, le regole sull’alimentazione, la protezione civile, il regime dei suoli. Quest’ultimo aspetto non è emerso a sufficienza nel dibattito, ma occorre pensare quali ricadute avrà non avere un’unica legge urbanistica, che detti le regole unitarie sul regime dei suoli, in un Paese che soffre di dissesto idrogeologico in maniera drammatica. Pensiamo alla Val Padana, che insiste su più Regioni – Veneto, Lombardia, Emilia Romagna – e che potrebbe avere un regime dei suoli differenziato a seconda dei confini politico-amministrativi regionali. Immaginare venti leggi di regime dei suoli ci fa tornare a prima del 1861. In generale,
l’autonomia differenziata è un’operazione molto pericolosa,
i cui primi segni tangibili riguarderanno l’esigibilità dei diritti civili e sociali –mobilità, assistenza, salute, sicurezza sul lavoro -, ma ci sarà poi una mancanza di tutela unitaria del suolo, dei beni culturali, del paesaggio. Stiamo parlando anche di beni immateriali dell’umanità protetti dall’Unesco e noi li regionalizziamo, mentre sono cardini dei doveri della Repubblica.
Ci sarà ancor di più un’Italia a due velocità?
L’eliminazione dei dualismi non fu una concessione del Nord al Sud o un’operazione assistenzialistica, ma la creazione di un sistema economico nazionale integrato con una divisione del lavoro che assegnava a ciascuna delle Regioni una prevalenza ma in funzione di un’economia nazionale unitaria. Il miracolo economico non si sarebbe compiuto senza il disegno di una divisione del lavoro tra Nord e Sud che puntava a una politica economica nazionale.
L’ultima ricaduta dell’autonomia differenziata è il venir meno delle ragioni di una politica economica nazionale,
quando invece Paesi competitivi in Europa tengono il punto per averla. E questo perché senza una politica economica nazionale c’è la svendita.