Uccisi solo perché “ebrei”, solo perché non appartenenti alla cosiddetta “razza ariana”. “Memoria è mai dimenticare quella tragedia! Memoria è anche cogliere un ammonimento che vale per tutti, individui, popoli e Paesi: con la facile condiscendenza al pregiudizio che può portare persino all’eliminazione dell’altro, considerato nemico pericoloso perché diverso da me, comincia a dissolversi non solo la convivenza, ma l’umanità stessa”. Il Sir ha chiesto a mons. Ambrogio Spreafico, di parlare dell’importanza oggi di celebrare il “Giorno della Memoria”. Le celebrazioni cadono quest’anno in un clima difficile, surriscaldato da parole “distorte, fuori dal contesto, abusate e ribaltate”. Lo hanno più volte denunciato in questi giorni le comunità ebraiche che hanno deciso di annullare – per motivi di sicurezza – la “Run of Mem”, la tradizionale corsa per la memoria che si percorreva dal 2017. Abbiamo chiesto a mons. Spreafico di fare il “punto” della situazione. E’ vescovo delle diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino e di Anagni-Alatri ma è anche da anni personalmente impegnato nel dialogo con gli ebrei, promotore di incontri, amico storico delle comunità ebraiche e di molti rabbini italiani. In occasione della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei (17 gennaio) e della Giornata Internazionale della Memoria (27 gennaio), le sue diocesi hanno organizzano due appuntamenti. Il primo, aperto a tutti, è centrato su “Ebraismo e Cristianesimo: tra memoria e dialogo”. L’altro – “Ebrei e cristiani: come parlarsi e conoscersi” – è riservato alle scuole.
Mons. Spreafico, a che punto è il dialogo? C’è chi parla di “passi indietro”, soprattutto dopo il 7 ottobre. Cosa sta rallentando il dialogo e cosa invece lo può sostenere?
Come ho già avuto modo di dire, non sono d’accordo quando si afferma che il dialogo faccia passi indietro o addirittura che le affermazioni di alcuni cattolici cancellino anni di dialogo. Soprattutto nei tempi difficili siamo chiamati a continuare a fare passi di incontro e di dialogo. Ciò non significa essere d’accordo su tutto, ma nella differenza anche di giudizi e opinioni dobbiamo resistere alla deriva dell’impossibilità a parlarci, certi che sempre si possano trovare vie di confronto sereno e fecondo in un tempo in cui le divisioni e le contrapposizioni sembrano negare ogni dialogo sereno e costruttivo. Nel nostro Paese ebrei e cristiani negli anni del post-concilio si sono incontrati e parlati con saggezza e cordialità, facendo le dovute comuni battaglie contro ogni forma di antisemitismo e di esclusione. Certo, riconosco che c’è ancora molto da costruire, perché i documenti della Chiesa cattolica non sono sempre penetrati nella mentalità delle nostre comunità. E questo emerge nei tempi difficili, in cui ritornano parole che mostrano che l’insegnamento della Chiesa non ha toccato ovunque la comprensione dell’ebraismo, dell’oggi della sua esistenza in mezzo a noi, o ad esempio del senso che popolo e terra hanno per il popolo ebraico.
Quanto è importante questo dialogo in questo momento?
Soprattutto oggi, dove antichi pregiudizi emergono tra i cristiani e non solo, è fondamentale non rinunciare al nostro comune impegno perché cresca la mutua conoscenza. Le schede preparate dalla Conferenza Episcopale Italiana e dalla Unione Comunità Ebraiche Italiane per la corretta conoscenza dell’ebraismo nei suoi diversi aspetti sono il segno di una Chiesa che vuole continuare a percorrere la via dell’incontro. Lo sforzo da parte ebraica di riflettere sul cristianesimo nascente attraverso alcuni studi anche recenti è di sicuro interesse. Ma penso anche ai numerosi momenti di dialogo nella Chiesa italiana in questi giorni o alla riflessione comune tra studiosi cristiani e rabbini nelle conferenze sulla Bibbia Ebraica organizzate dal Vicariato di Roma, secondo un programma accordato tra Rav Di Segni, il sottoscritto, il vescovo Daniele Libanori e don Marco Gnavi, dell’Ufficio per l’Ecumenismo e il Dialogo del Vicariato di Roma. La scelta di fermarsi solo sulla Bibbia ebraica nasce dal desiderio di rendere consapevoli i cristiani del valore che essa ha per noi e, naturalmente, continua ad avere per le comunità ebraiche, sottolineandone il valore storico e teologico. Mi sembra una bella novità di approccio al dialogo ebraico-cristiano.
Il dialogo e la pace…è possibile oggi questo binomio?
Senza dubbio. Il dialogo è l’unica via alla pace. Prima o poi, anche quando si sono fatte le guerre, lo storia dimostra che ci si deve sedere attorno a un tavolo e parlarsi. Questa è una ricerca che mantiene la sua urgenza per evitare la distruzione e morte che le guerre producono.
Non c’è altra via alla pace se non attraverso il dialogo.
In questo senso non possiamo non desiderare la pace, anche quando essa sembra lontana o quasi impossibile. La Bibbia ebraica ne parla in continuazione. Là dove c’erano guerre o minaccia di guerre i profeti hanno sempre immaginato la pace. Come non pensare alla tradizione isaiana, in cui si rispecchiano tempi non sempre pacifici e di dolore per Israele. Eppure, i profeti non cedevano all’impossibilità di sognare e annunciare la pace, tanto desiderata.
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. Una giornata che chiama in causa il mondo intero. Alla luce di quello che stiamo vivendo, in un clima crescente di polarizzazioni, odio, violenza, che senso ha celebrare la memoria?
Chiariamo subito che la memoria della Shoà è un fatto unico, che non va confuso né assimilato ad altri eventi pur drammatici della storia. La memoria del genocidio e del contagio antisemita che ha travolto l’Europa dovrebbe ricordare dove può arrivare l’odio nutrito da pregiudizi, da ideologie, da un senso dell’io e di esaltazione di sé stessi e del proprio gruppo, che diventa eliminazione dell’altro, considerato non solo nemico, ma persino indegno di esistere, perché supposto inferiore, e infine capro espiatorio di ogni male collettivo e personale che sia. Lo sterminio dei campi nazisti fu una macchina mortale, che si accanì contro uomini e donne, che erano in mezzo a noi. Erano tedeschi, italiani, ucraini, francesi, polacchi, … europei, insomma nostri concittadini. Ma erano “ebrei”, non appartenenti alla cosiddetta “razza ariana”. Privati dei diritti fino a quello della vita stessa!
Avete riservato un incontro alle scuole. Perché? E quali messaggi volete lanciare ai giovani?
I giovani spesso non hanno contezza di quanto di terribile sia avvenuto con la Shoà, anche perché a volte la sua memoria è scomparsa dallo studio della storia, a meno che non trovi un insegnante con una sensibilità e conoscenza di quanto avvenuto, consapevole dell’importanza di parlarne. Ma ce ne sono sempre di meno, perché, al di là della facciata, qui non si tratta solo di momenti di ricordo, ma della coscienza di un dramma avvenuto in Europa, in una cosiddetta società cristiana e pure democratica! Questo impegno con i giovani è ancora più necessario in un tempo in cui vengono a mancare i testimoni diretti, i sopravvissuti. Noi assieme ai giovani avremo la responsabilità di diventare la loro voce, la voce del loro dolore, ma anche della loro speranza.
Quale speranza per il futuro? E quale responsabilità hanno i credenti perché questa speranza non muoia?
Come cristiani non possiamo non avere speranza.
In un tempo in cui si parla di declino, in cui la rassegnazione e l’indifferenza sembrano segnare anche la vita delle comunità cristiane, non si può perdere la speranza, che nasce e viene nutrita da quella Parola di Dio, che ci unisce in maniera indissolubile all’ebraismo. Quell’affermazione del patriarca Atenagora “Chiese sorelle, popoli fratelli”, che ovviamente si riferiva ai cristiani, si potrebbe estendere alle religioni: la fede ci può aiutare a vivere da fratelli e sorelle nel rispetto della nostra diversità, per renderci partecipi del sogno di Dio, che secondo la Bibbia ci ha voluti parte di una famiglia universale, non omologhi, ma fratelli sì. Questa fede è già speranza e illumina il futuro indicandoci la strada per costruirlo con la pazienza del dialogo e dell’amicizia.