Sono diverse le storie che nel tempo cercano di tenere viva la memoria della shoah, della pazzia di un’idea di sterminio così tanto folle al solo pensarci, che fa impressione realizzare come sia stata invece portata avanti in Italia per anni liberamente, sotto gli occhi di tutte le persone dapprima convinte a votare una condotta politica drastica ma indispensabile per essere un patriota, e poi soggiogate da una dittatura che metteva manganelli in mano a persone ignoranti e soldi in tasca a chi comandava. Una delle storie più crude di questa pagina di storia, è stata scritta a Roma la mattina presto del 16 ottobre 1943, in quel “sabato nero” del rastrellamento del ghetto di Roma, una retata delle truppe tedesche e della polizia d’ordine, con la collaborazione di funzionari del regime fascista, che portò all’arresto di 1259 persone, 689 donne, 363 uomini e 207 bambini, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica di Roma, quasi tutti deportati nel campo di sterminio di Auschwitz.
La memoria di questo momento non è stata raccontata però solo dai pochissimi sopravvissuti, 16 in totale, ma anche da quelle persone che hanno deciso di rischiare la loro vita per proteggere chi veniva ingiustamente perseguitato, aprendo le porte delle loro case per nasconderle. Inglobata all’interno del quartiere ebraico di Roma, con l’ingresso principale in piazza Campitelli, dove nel 1943 sorgeva una base di quella forza di polizia che sarebbe divenuta la Guardia nazionale repubblicana, e l’ingresso di servizio su Portico d’Ottavia, dove avvenne il rastrellamento appena ricordato, sorge la chiesa di Santa Maria in Portico che, in quel periodo storico, si è distinta positivamente, per aver dato rifugio a chi cercava di sfuggire dalla persecuzione, tanto da ricevere il riconoscimento della comunità ebraica italiana. “In queste sale, durante la seconda guerra mondiale, furono accolti e nascosti moltissimi uomini ebrei per sfuggire ai rastrellamenti nazisti. La comunità dei religiosi della Madre di Dio di S. Maria in Campitelli affrontò con grande coraggio e con grande pericolo di essere scoperti e deportati”. Questo è scritto nel documento che attesta quanto fatto dai padri dell’Ordine della Madre di Dio, custodi della chiesa e dell’icona della Madonna con Gesù bambino che attesta il miracolo di Santa Galla ed alla quale i romani si sono rivolti in particolare per salvarsi dalla peste nel 1656 e dal terremoto nel 1703.
“Obbedienti alle parole ed al comando di Pio XII, si sentirono di aprire le porte del convento, anche perché il ghetto ebraico si trova a pochi metri dalla sagrestia della chiesa, in un piccolo ingresso. Alcune famiglie furono ospitate all’interno della sala Baldini e alcuni uomini furono ospitati all’interno della comunità, vestiti da sacerdoti dell’Ordine Madre di Dio”, racconta padre Davide Carbonaro, parroco di Santa Maria in Portico in Campitelli, riportando le testimonianze ascoltate direttamente da alcuni padri anziani, tra questi padre Lucio Migliaccio e padre Pietro Pieroni, che raccontavano come il superiore generale del tempo, padre Forcellati, avesse dato l’ordine ai religiosi di compiere questo gesto di accoglienza molto rischioso, che avrebbe potuto causare la deportazione di loro stessi. “Da tanti secoli c’è un rapporto particolare con gli ebrei, proprio perché noi siamo all’interno della comunità ebraica come parrocchia di Santa Maria in Campitelli, e da sempre c’è stato un rapporto anche fraterno e di amicizia con la comunità ebraica”, prosegue padre Carbonaro pieno di orgoglio per quanto compiuto dai suoi predecessori, disobbedendo al regime e dando il loro contribuito per salvare delle vite umane. “Quando si salva una vita, si salva il mondo intero”, sono le sue parole citando il film Schindler’s List di Steven Spielberg,
“Ed è proprio questo: chi salva poche persone ha salvato veramente l’umanità”.
In occasione del Giorno della memoria, da qualche anno ormai, la parrocchia di Santa Maria in Campitelli vive un momento particolare assieme alla comunità ebraica per ricordare e commemorare le vittime del genocidio nazista e fascista della seconda guerra mondiale, per questo motivo la mattina del 27 gennaio i parroci della seconda prefettura di Roma, insieme con i sacerdoti del territorio, si ritrovano in largo XVI ottobre per compiere il gesto della deposizione dei fiori sul muro della Casina dei Vallati, dove c’è la lapide che ricorda i deportati, e poi vescovo ausiliare e rabbino presente pregano ognuno secondo il proprio rito. “Proprio perché la preghiera è quella che accomuna sia la comunità ebraica che la comunità cristiana”, afferma il religioso, “perché il Dio che noi veneriamo è un Dio unico: Dio d’Israele e dei nostri padri”. Da ormai qualche anno sono diverse le voci che parlano di nostalgici del fascismo e di rischio che si possa tornare a vivere momenti come quelli storicamente riportati durante il ventennio fascista, che sarebbe un delitto già solo pensare di poterli depenalizzare a semplici fatti di cronaca, un timore che si deve cercare di allontanare con ogni mezzo. “Sono importanti questi gesti, sia da parte della comunità ebraica, sia da parte della comunità cristiana, perché l’educazione alla memoria permette di elevare anche il livello dei gesti e delle cose che si realizzano oggi. Noi dobbiamo continuare a compiere gesti di accoglienza e quindi dobbiamo anche cancellare tutte le discriminazioni che ci sono, di qualsiasi genere, è questo il compito non solo del cristiano o dell’ebreo, ma il compito dell’umanità. Su questo dobbiamo crescere, alimentando la memoria”. Le parole di padre Carbonaro che stimola al ragionamento biblico che dovrebbe essere guida per i cristiani nell’essere lievito nella società, pensando che il proprio operato non sia inutile quando lo si vede apparentemente perso nella massa.
“Sì, è facile dire ‘mai più’, lo ripeteremo nei prossimi giorni, ma questo mai più deve essere suggellato da quello che è il compito nostro, che è quello dell’educazione. Consegnare la memoria agli altri, perché tutto ciò che di negativo è stato nell’esistenza di persone che ci hanno preceduto, oppure quello che sta accadendo ai nostri giorni, non accada più. Ma questo dipende dalla nostra scelta, dipende da noi, da ciascuno di noi”. Prosegue il religioso evidenziando l’importanza di mettersi in sintonia con l’altro, non identificandolo come un nemico ma, piuttosto, come un fratello, “In questo Papa Francesco ci sta insegnando tanto sull’immagine della fratellanza universale. Perché
solo raccontando la fratellanza universale, noi potremmo superare ciò che ci divide e trovare, invece, ciò che ci unisce: l’umanità innanzitutto e poi anche gli elementi della nostra fede”.