Una battaglia di civiltà?

Per un punto Martin perse la cappa. In questo caso il punto, o meglio il voto mancante, è quello che ha impedito al Consiglio Regionale del Veneto di approvare, la scorsa settimana, una legge sul cosiddetto “fine vita”.

Per un punto Martin perse la cappa. In questo caso il punto, o meglio il voto mancante, è quello che ha impedito al Consiglio Regionale del Veneto di approvare, la scorsa settimana, una legge sul cosiddetto “fine vita”. Chiesta a gran voce dall’associazione Coscioni (che aveva raccolto per questo ben 9 mila firme) la proposta di legge regionale era stata appoggiata un po’ a sorpresa dal governatore Zaia che si era così smarcato da quella che in genere è la linea della Lega sui temi della bioetica (difficile dire poi se i programmi di partito nascano per reale convinzione o per calcolato opportunismo politico). Ma segno che la materia è estremamente sensibile e interpella le coscienze ben oltre i diktat delle dirigenze (di destra o di sinistra che siano), è stato un altro smarcamento a far discutere, perché ritenuto la causa ultima dell’affossamento della legge: quello della consigliera del partito democratico Anna Maria Bigon che, anziché uscire dall’aula (come era stato suggerito dai vertici del Pd in caso di obiezione di coscienza), ha preferito restare e astenersi, portando così l’esito della votazione al noto (e insufficiente) pareggio finale.
Interessanti e condivisibili le ragioni della consigliera veronese (avvocato, madre di due figli, proveniente dal mondo cattolico): primo, non è pacifico che la competenza di una tale legge possa essere attribuita alle singole Regioni (l’Avvocatura dello Stato si è già pronunciata negativamente a riguardo affermando che spetterebbe piuttosto al Parlamento legiferare); secondo – e questo mi sembra il punto davvero interessante – piuttosto che legiferare per garantire a tutti la possibilità del “suicidio assistito”, sarebbe necessario farlo per garantire a tutti i pazienti terminali cure palliative adeguate ed efficaci. E qui, conoscendo bene e stimando il lavoro encomiabile portato avanti con umanità e professionalità dal personale degli hospice e dagli assistenti domiciliari che accompagnano tante persone – soprattutto malati oncologici – negli ultimi giorni di vita, facciamo però un’amara scoperta: pare che in Veneto abbiano accesso alle cure palliative (che tolgono o rendono quantomeno sopportabile il dolore) meno della metà delle persone che ne avrebbero realmente bisogno. Per gli altri l’agonia resta un travaglio spesso lungo e disumano, cui nemmeno l’oblio della morfina riesce del tutto a sottrarre il moribondo.
Questo dato mi ha riportato alla memoria le confidenze di alcune persone cattoliche praticanti che, avendo dovuto assistere alla dolorosa agonia di qualche familiare, si dicevano favorevoli o almeno possibilisti riguardo all’eutanasia o al suicidio assistito. Il favore verso queste pratiche, che la Chiesa continua giustamente a considerare eticamente inaccettabili e pericolose, nascerebbe dunque in molti dal timore di una sofferenza insopportabile sia da patire sul proprio corpo che da vedere su quello delle persone amate. Ma che cosa porta allora a non estendere l’accesso alle cure palliative a tutti coloro che ne avrebbero bisogno? Il sospetto è che il problema sia meramente di natura economica. E allora una domanda terribile ci assale: non è che si voglia promuovere il suicidio assistito perché forse costa molto meno al Sistema Sanitario delle cure palliative? Una punturina e via. Se così fosse si starebbe mascherando dietro ad “una battaglia di civiltà”, solo la sopraffazione della tecnica, dell’economia e dell’efficienza sulla dignità dell’uomo. Resta comunque il fatto – cosa difficile da dire in un contesto culturale che vorrebbe rimuovere l’idea stessa della sofferenza – che una certa dose di dolore sarà inevitabile nel morire, esattamente come abbiamo sofferto per venire al mondo. Sempre di un travaglio si tratta; per chi crede, verso una vita altra.

Altri articoli in Italia

Italia