“Quello sottoscritto a Dubai è un buon accordo. Questo, unito al consenso unanime degli Stati, toglie spazio ad atteggiamenti quali il negazionismo o il ‘disperazionismo’ e può quindi creare un orizzonte e un contesto che siano favorevoli a quello che dobbiamo fare per raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti”. Così Leonardo Becchetti, ordinario di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, commenta al Sir l’accordo raggiunto al termine della Cop28 a Dubai nel quale, per la prima volta, al fine di conseguire l’obiettivo zero emissioni nette nel 2050 è stata prevista la fine dell’era dei combustibili fossili già entro il 2030.
Professore, il sultano Ahmed Al-Jaber, ceo della principale compagnia petrolifera emiratina e presidente della Cop28, lo ha definito un “accordo storico” perché “per la prima volta in assoluto c’è un linguaggio sull’uscita dei combustibili fossili”. Condivide l’entusiasmo di chi ha affermato – rivolgendosi ai partecipanti alla Convenzione – che “le future generazioni vi ringrazieranno” per l’intesa raggiunta?
Per prima cosa dobbiamo chiarire che questi accordi servono a creare un quadro condiviso che poi dovrebbe orientare le politiche degli Stati, delle imprese e i comportamenti delle persone. E sappiamo anche che non sono vincolanti legalmente. Detto questo, però,
quello sottoscritto a Dubai è un buon accordo.
Fino a ieri sembrava saltasse questa possibilità, invece si è trovato un compromesso. Non si parla più di “phasing out” (eliminazione graduale, ndr) ma di “transitioning away” dalle fonte fossili, che significa allontanarsi progressivamente dalle fonti fossili durante la transizione. Un processo – è stato concordato – da fare in maniera equa e ordinata, per arrivare all’obiettivo delle missioni zero nel 2050. Inoltre,
è significativo che c’è un quadro concorde da parte di tutto il mondo in questa direzione. Questo sicuramente è qualcosa che toglie un po’ gli alibi, soprattutto a due tipi di pensiero che sono problematici: il negazionismo e quello che io chiamo “disperazionismo”, atteggiamento tipico di coloro che dicono: “Vabbè, tanto non c’è niente da fare e quindi è meglio non fare nulla”.
L’accordo approvato oggi e il consenso unanime degli Stati tolgono spazio ad atteggiamenti di questo tipo e possono quindi creare un orizzonte e un contesto che siano favorevoli a quello che dobbiamo fare per raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti.
Nel “Global Stocktake”, il testo finale approvato, si stimano i fondi che dovranno essere impegnati per raggiungere gli obiettivi. Per proteggere i Paesi in via di sviluppo dalle conseguenze della crisi climatica e per il loro adattamento serviranno dai 215 ai 387 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Per la transizione energetica, invece, 4.300 miliardi di dollari all’anno fino al 2030 e poi 5.000 miliardi di dollari l’anno fino al 2050. Cosa ne pensa?
Credo siano importi un po’ sovrastimati perché in realtà – pensiamo all’Italia ma anche ad altri Paesi – gran parte della transizione verso il cambiamento delle fonti di energia arriva da progetti privati. Quello che si chiede allo Stato è autorizzarli.
L’investimento pubblico è necessario per rafforzare il sistema della rete elettrica e per aiutare la transizione nel settore degli edifici. Alla politica si chiede di essere veloce nelle autorizzazioni, quindi di aprire all’utilizzo delle energie dei privati in questo ambito. L’intervento economico-finanziario dello Stato serve soprattutto nel settore delle abitazioni, perché lì manca ai privati l’incentivo ad operare senza aiuti:
ristrutturare una casa costa e quindi è importante riproporre qualcosa, non il 110% ma comunque dei bonus per l’efficientamento degli edifici. In molti altri campi, invece, le cose vanno avanti grazie al mercato. Ci saranno aziende che costruiranno auto elettriche che costeranno meno di quelle con motore a scoppio. E già oggi produrre energia da sole e da vento costa molto di meno che farlo da fonti fossili. Per questo, ripeto, secondo me le cifre indicate sono sovrastimate.
Nell’accordo si parla anche della “gestione dei rischi finanziari legati al clima” invitando ad “accelerare l’istituzione di fonti di finanziamento nuove e innovative, compresa la tassazione, per l’attuazione dell’azione per il clima, consentendo così di ridurre gli incentivi dannosi”. Quanto è importante questa leva per agevolare gli impegni presi?
È molto importante, perché sposta le convenienze e i prezzi relativi. Ma bisogna anche tener conto che proprio
la voce dell’abolizione dei sussidi ambientalmente dannosi è una voce di “segno +” per lo Stato, non di “segno -” perché significa ridurre l’attuale spesa in sussidi. Vero è che per eliminare i sussidi ambientalmente dannosi bisogna creare delle compensazioni e degli incentivi verso le categorie più colpite.
E quindi, da questo punto di vista, bisogna di fatto spostare l’impegno finanziario in quella direzione.
Per i Paesi in via di sviluppo è stato scritto che per una transizione giusta ed equa rimangono fondamentali sovvenzioni, finanziamenti agevolati e strumenti che non ricadono sul debito consentendo un sufficiente margine fiscale…
Tra i Paesi in via di sviluppo, per quelli più indebitati ci sarà il problema delle risorse necessarie per finanziare la transizione degli edifici al fine di portare a “net zero” quelli già esistenti. E poi, più in generale, c’è la questione del “Loss & Damage” al quale è stato dedicato un capitolo della dichiarazione: un fondo per le perdite, le compensazioni per i danni climatici che alcuni di questi Paesi stanno subendo. Sulla creazione di questo fondo si è discusso molto ed è una voce importante.
Venendo al contesto italiano, per concretizzare gli impegni sottoscritti a Dubai quali sono le misure più urgenti, gli ambiti nei quali bisogna intervenire il prima possibile per andare nella direzione auspicata e dare come Paese il nostro contributo nel camminare più speditamente verso l’obiettivo delle emissioni nulle?
L’Italia ha un potenziale straordinario. E il fatto che non sia stato pienamente sfruttato lo abbiamo già pagato, perché
la crisi dei prezzi del gas ha prodotto inflazione, tanto più quanto più dipendiamo ancora dalle fonti fossili. Questo ha causato danni per le imprese e per le famiglie.
Quindi
accelerare nella transizione non è un costo, è un beneficio.
Per farlo, dobbiamo portare a termine il processo di definizione delle aree idonee tra Governo e Regioni, perché sono le aree dove poi è più facile e più agevole realizzare nuovi impianti. Dobbiamo, come dicevo prima, accelerare le autorizzazioni e realizzare la parte migliore di tutti quei progetti che sono stati presentati dai privato, autorizzarli: penso soprattutto agli impianti eolici offshore. E poi bisogna procedere in questo percorso di rimozione dei sussidi ambientalmente dannosi, però dev’essere guidato in modo tale che sia politicamente sostenibile, senza creare rivolte o proteste da parte delle categorie che sono coinvolte.