In Italia si sta verificando una sorta di apartheid sanitario, di discriminazione legata alla possibilità o meno di accedere alle cure mediche. Se ne è parlato in un webinar promosso il 6 dicembre dall’associazione Scienza&Vita. Focus sulla medicina solidale, che con i suoi ambulatori di strada e per strada si prende cura delle persone più fragili o segnate da profonde ferite sociali ed economiche
Apartheid sanitario. “Oggi sta emergendo un tema di cittadinanza minoritaria, ossia di cittadini che non hanno possibilità di trovare nei servizi sanitari quell’eccellenza che dovrebbe essere garantita costituzionalmente a tutti. Si stanno creando nuove forme discriminatorie legate alla possibilità di curarsi”. A lanciare l’allarme è stato la sera del 6 dicembre Alberto Gambino, presidente di Scienza&Vita e prorettore Università europea di Roma, inaugurando il primo dei due webinar promossi dall’associazione sul tema della “medicina solidale” (il secondo si svolgerà mercoledì prossimo, 13 dicembre). Per Maurizio Calipari, bioeticista e portavoce dell’associazione, che ha moderato l’incontro, “ci sono esigenze nuove cui bisogna dare risposta, situazioni emergenziali e nuovi bisogni. Come assicurare una cura per tutti?”. La medicina odierna – e i sistemi sanitari che erogano i servizi – “devono affrontare questa crescente sfida”, un vero “apartheid sanitario”.
Recuperare l’essere medici. Ma qual è oggi il rapporto medico-paziente?
“Forse dovremmo recuperare la dimensione dell’essere medici, non del fare i medici”,
ha risposto Dario Sacchini, docente di bioetica all’Università Cattolica di Roma, sottolineando il “capovolgimento” di questa relazione. “Dal modello quasi paternalistico del passato si è passati ad un modello contrattualistico” nel quale “si fa sempre più strada il cosiddetto principio di rispetto dell’autodeterminazione del soggetto, positivo in linea di principio ma pericoloso quando questo prende la via del braccio di ferro tra paziente e medico”. Per Sacchini, anche il modello contrattualistico si è tuttavia rivelato insufficiente: “Ora si sta navigando verso un tipo di relazione nella quale medico e paziente sono compagni di viaggio, ovviamente con competenze e ambiti diversi, insieme analizzano il problema di salute, lo interpretano e insieme decidono il percorso da intraprendere in una pianificazione condivisa delle cure”.
Medicina di strada e scuola di specialità. “Oggi abbiamo in carico 347 persone senza fissa dimora. Dal 2016 abbiamo erogato 3.462 prestazioni ambulatoriali al cui interno sono compresi esami strumentali che altrimenti avrebbero avuto difficoltà a fare”. Giovanni Addolorato, direttore Uoc Medicina Interna 2 e patologie alcol-correlate del Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma, da diversi anni opera concretamente nel campo della medicina solidale. “Lavorando in ospedale abbiamo constatato che una fetta di popolazione non ha accesso alle cure primarie,”, ha raccontato. Così, “all’interno della mia Unità di Medicina interna abbiano deciso di dedicare un numero di letti a chi viene normalmente escluso da queste cure (persone senza documenti e/o senza fissa dimora)”. Addolorato opera in sinergia con una rete territoriale costituita da Elemosineria vaticana, Caritas e Comunità di Sant’Egidio. E i risultati non mancano: “I nostri pazienti hanno una degenza media di 7 giorni, una buona percentuale riesce a riguadagnare salute e alcuni anche a reinserirsi socialmente”.
Ma la medicina solidale richiede una preparazione specifica: occorre fare anche medicina di strada nelle strutture di prima accoglienza. Per questo, ha spiegato, “abbiamo attivato una scuola di specialità” che si chiama Medicina di comunità e delle cure primarie all’interno della quale, oltre all’attività in reparto e ambulatorio, la maggior parte dei quattro anni di percorso formativo è concentrata sulla medicina di strada: gli specializzandi dovranno andare ad esempio al quartiere Tufello dove è attivo un servizio di “portierato sociale” con volontari che segnalano i casi di fragilità, o sotto il porticato di san Pietro per “intercettare quella quota di persone che nei PS o in ospedale non si è sentita accolta”. Apprezzamento da parte del ministero dell’Università che ha attribuito alla scuola, appena avviata, addirittura cinque posti. “La principale difficoltà incontrata e condivisa da tutti i medici del mio team – rivela Addolorato – è il carico emotivo davvero importante. Uno dei miei primi pazienti, un ragazzo romeno senza fissa dimora di nome Tudor, è rimasto incredulo di fronte alla mia richiesta di visitarlo: nei suoi precedenti accessi al PS non era stato mai toccato da nessuno perché, dicevano tra loro i medici, puzzava”.
Eroi della sopravvivenza. Un impegno ormai ventennale di ambulatori di strada e per strada nelle periferie romane è il servizio di medicina solidale nato a Tor Bella Monaca per iniziativa di un gruppo di medici guidati da Lucia Ercoli, docente di Malattie infettive all’Università di Roma Tor Vergata e direttore scientifico dell’Istituto di medicina solidale (Imes), associazione di volontariato sorta nel 2003 per prendersi cura di persone socialmente svantaggiate ed escluse dall’assistenza sanitaria.
“Ognuno dei nostri pazienti potrebbe essere considerato l’eroe di un’epica della sopravvivenza”,
ha premesso Ercoli raccontando la nascita della medicina solidale e il supporto ricevuto fin dall’inizio dal Policlinico di Tor Vergata. “Il bisogno di salute sommerso lo devi andare a cercare, ma riguarda migliaia di persone”, ha spiegato la dottoressa parlando di “aree di apartheid sanitario” e di medicina di strada nelle periferie della capitale. Un pilastro fondamentale è la salute materno-infantile.
“Siamo presenti in tre municipi come ambulatori di strada – ha detto ancora -, mentre le unità di strada si muovono in diversi municipi ed anche in altri Comuni che raggiungiamo attraverso il passaparola. L’esclusione dal diritto alla cura è cartina al tornasole della negazione di altri diritti:
centinaia di bambini non accedono neppure ad un pasto sicuro al giorno e non hanno una casa decente”.
“Noi lavoriamo molto sulla prevenzione: forniamo viveri a 970 famiglie. Grazie alla distribuzione di pasti abbiamo aiutato molte donne a non ricorre all’interruzione volontaria di gravidanza”. L’intervento, ha ribadito Ercoli, deve essere sociosanitario, integrato: non basta curare i bambini sottopeso, occorre una strategia di contrasto alla malnutrizione infantile. Di qui la distribuzione di omogeneizzati per i più piccoli. “Quando proponiamo un percorso diagnostico e/o terapeutico occorre capire se la persona è in grado di seguirlo; altrimenti interveniamo. Tramite mediatori sociali facciamo anche orientamento e accompagnamento ai servizi”. I bimbi seguiti in ambulatorio sono circa 900: quest’anno ognuno di loro è stato visitato almeno tre volte.
E c’è una nuova emergenza, la patologia psichiatrica tra i bambini:
“Per 120 di loro abbiamo avviato un percorso diagnostico e terapeutico gratuito”.