Un esordio nel segno del cinema di impegno civile, non distante dall’orizzonte alla Ken Loach. È l’opera prima di Michele Riondino, “Palazzina LAF”, che racconta una pagina di abuso di potere, di mobbing, in ambito lavorativo. Con sguardo duro e tagliente, Riondino racconta l’isolamento di 79 lavoratori nell’Ilva di Taranto, relegati in una struttura nota appunto come Palazzina LAF, un modo per disincentivare adesioni o agitazioni sindacali. Un film politico, vibrante, necessario. Nel cast Elio Germano, Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo e Paolo Pierobon; produce Palomar, Bravo, Bim e Rai Cinema. Ancora, alla Festa del Cinema oggi è il giorno di “Zucchero Sugar Fornaciari”, documentario diretto da Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano: il bluesman emiliano si racconta con grande generosità accompagnato in questo flusso di ricordi da amici di lunga data come Bono, Sting, Brian May, Paul Young, Andrea Bocelli, Francesco Guccini, Francesco De Gregori e Corrado Rustici. Una carrellata emozionante tra carriera, brani noti, collaborazioni eccellenti e inedite pagine private. Prodotto da K+ Film e Adler, il film sarà al cinema dal 23 al 25 ottobre. Il punto Cnvf-Sir.
“Palazzina LAF”
Elio Petri, Mario Monicelli, ma anche l’universo lavorativo tratteggiato dai vari “Fantozzi” sono tra i riferimenti di Michele Riondino nel realizzare il suo primo film da regista, “Palazzina LAF”. A bene vedere, nel suo sguardo si coglie molto del cinema di impegno civile di matrice europea, in testa quello di Ken Loach e dei fratelli Dardenne. Insieme allo sceneggiatore Maurizio Braucci, Riondino ha decido di mettere in racconto una brutta pagina di diritti violati nell’Ilva di Taranto alla fine degli anni ’90.
La storia. Taranto anni ’90, Caterino è un operaio dell’Ilva. In ristrettezze economiche e desideroso di dare un twist alla propria vita, accetta un ricatto dai vertici aziendali: spiare i colleghi sul posto di lavoro, soprattutto quelli coinvolti con i sindacati. Così Caterino intasca una promozione e si inserisce tra le fila di quelli spediti alla palazzina LAF. Lì sono radunati i dipendenti etichettati come “problematici”, troppo vicini ai sindacati… “Quella della Palazzina LAF – rimarca Riondino – è la storia di uno dei più famigerati ‘reparti lager’ del sistema industriale italiano. È la storia di un caso giudiziario che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro. 79 lavoratori altamente qualificati costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito in tribunale ‘una specie di manicomio’. Per la prima volta il confino in fabbrica fu associato a una forma sottile di violenza privata e per merito di questa sentenza un termine ancora non riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico fu finalmente introdotto. Quello della palazzina LAF fu il primo caso di mobbing in Italia”.
Dopo titoli di richiamo tra cinema e serie Tv come interprete – “Dieci inverni” (2009), “Il giovane favoloso” (2014), “Pietro Mennea” (2015), “Il giovane Montalbano” (2012-15) –, Michele Riondino passa alla regia firmando un’opera che possiede carattere e densità. Forte delle proprie origini tarantine e anche di un lungo impegno civile sui temi del lavoro con “Uno maggio Taranto libero e pensante”, Riondino ha composto un film capace di unire cronaca, denuncia e umorismo nero. Da un lato rende note le tante, troppe, vessazioni subite dagli operai in un polo industriale chiave del Paese, l’Ilva, dall’altro mostra un gruppo di lavoratori vilmente “declassati” abitare un tempo sospeso e claustrofobico con un’umanità tragica e insieme farsesca.
Di quello che ci racconta il film tutto è vero, grazie a un attento lavoro di documentazione compiuto da Riondino e Braucci, l’unica licenza è il profilo del protagonista, Caterino, che Riondino ha disegnato come meschino e indolente, disposto a tutto per strappare un assegno più corposo a fine mese. Un personaggio grigio, misero, senza evidenti sussulti di coscienza.
Nell’insieme “Palazzina LAF” è un film che convince per stile e costruzione narrativa, duro e tagliente, ma mai del tutto tragico nei toni: Riondino preferisce che l’intensità giunga attraverso il cortocircuito tra dramma e grottesco, tra realismo livido e farsa. Un’opera grintosa, coraggiosa e di senso, sorretta da un cast affiatato composto da Elio Germano, Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo e Paolo Pierobon. Da ricordare, inoltre, l’intenso brano composto da Diodato, “La mia terra”. Film consigliabile, problematico, per dibattiti.
“Zucchero Sugar Fornaciari” (Cinema, 23.10)
A poche settimane dall’uscita della docuserie sul rocker di Zocca “Vasco Rossi. Il supervissuto” (Netflix), ecco il ritratto di un altro grande interprete della musica italiana, il bluesman emiliano Adelmo Fornaciari in arte Zucchero: è il documentario “Zucchero Sugar Fornaciari”, in cartellone alla 18a Festa del Cinema di Roma e in sala dal 23 ottobre con Adler Entertainment. A dirigere il doc sono Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano, che hanno convinto il noto bluesman da 60 milioni di dischi venduti a raccontarsi per la prima volta.
Zucchero si mette a disposizione della macchina da presa, del pubblico, offrendo una testimonianza genuina e intima, nello stile proprio della terra emiliana. Zucchero è schietto e coinvolgente quando parla della sua musica, come pure quando racconta la sua infanzia felice a Roncocesi, paesino emiliano dalla cultura contadina, dove trascorre le giornate con la nonna Diamante o in chiesa a suonare l’organo. Il mondo dolce dell’infanzia gli viene però sottratto dalla scelta dei genitori di trasferirsi in Toscana, a Forte dei Marmi. Un trauma che l’artista non riesce mai del tutto a sanare e che lo farà sentire sempre un senza terra, un senza radici.
Tra le pagine più interessanti del documentario ci sono le collaborazioni artistiche, le amicizie su e giù dal palco con artisti come Bono Sting, Brian May, Paul Young, Luciano Pavarotti (insieme hanno dato vita al “Pavarotti & Friends”), Andrea Bocelli, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Don Was, Randy Jackson e Corrado Rustici. E ancora, la genesi di noti brani come “Diamante”, “Donne”, “Miserere”, “Così celeste”, “Muoio per te” o “Someone Else’s Tears”.
Sul fronte privato, Zucchero parla diffusamente dell’attaccamento alla nonna Diamante, della luminosa semplicità dei genitori, ma anche della ferita legata alla separazione dalla prima moglie e della vertigine della depressione, che lo inghiotte per oltre cinque anni all’inizio del decennio ’90, quando paradossalmente la sua carriera internazionale decolla con passo deciso.
Nell’insieme, il doc “Zucchero Sugar Fornaciari” volteggia in maniera solida e convincente, con un ritratto del bluesman emiliano diretto e senza troppi orpelli. Il film parla di lui, delle sue origini, della sua musica e dei suoi incontri, ma anche delle sue fragilità, compresa quella costante malinconia che impreziosisce la vis poetica del suo blues. Un’opera che corre via veloce, agile, forse a tratti un po’ patinata, ma comunque equilibrata e onesta. Documentario consigliabile, semplice-poetico.