Vite giocate al massimo. Questo è il filo rosso che lega le due proposte della settimana tra cinema e piattaforma. Anzitutto in sala c’è la commedia grottesca “The Palace” di Roman Polański, presentata fuori Concorso a Venezia80. Con un ricco cast corale, tra cui Oliver Masucci, Fanny Ardant, Luca Barbareschi e Mickey Rourke, il film offre l’istantanea tragicomica di un’umanità buffa e disgraziata che si ritrova a festeggiare il Capodanno del 2000. Con non pochi rimandi all’eccellente “Triangle of Sadness” (2022) e al brillante “C’est la vie. Prendila come viene” (2017), “The Palace” è racconto dall’andamento brioso, ma non sempre solido e a fuoco. Vera sorpresa della settimana è la docuserie Netflix “Vasco Rossi. Il Supervissuto”, un intenso ritratto del rocker di Zocca che ha accettato di raccontarsi tra palco e vita privata con grande generosità e autenticità, esplorando anche le zone d’ombra del suo vissuto. Cinque episodi grintosi, coinvolgenti, che ripercorrono cronologicamente le tappe di una carriera, di una vita, fuori dal comune. Una docuserie che lascia il segno. Il punto Cnvf-Sir.
“The Palace” (Cinema, 28.09)
Ha da poco compiuto novant’anni il regista polacco Roman Polański, classe 1933, un autore che dimostra di possedere sempre una chiara forza espressiva e narrativa. Sessant’anni di carriera alle spalle, dal folgorante esordio nel 1962 con “Il coltello nell’acqua”, seguito da titoli che ne hanno consolidato talento e consenso come “Chinatown” (1974), “Il pianista” (2002, Oscar miglior regia, attore Adrien Brody e sceneggiatura non originale), senza dimenticare i recenti gioielli come “Carnage” (2011) e “L’ufficiale e la spia” (2019). All’80a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia ha presentato fuori Concorso un progetto cui teneva da tempo, ma che rimandava nella realizzazione: è la commedia tagliente “The Palace”, prodotta da Luca Barbareschi e da Rai Cinema. A firmare il copione è lo stesso regista insieme a Jerzy Skolimowski e Ewa Piaskowska.
La storia. Svizzera, 31 dicembre 1999. Nel lussuoso Palace Hotel fervono i preparativi per l’atteso e temuto Capodanno che apre al nuovo Millennio. Il manager della struttura Hansueli (Oliver Masucci), deve fronteggiare nel corso della lunga giornata e dell’animata notte di festeggiamenti una sequela di imprevisti dal sapore tragicomico. Nell’albergo converge infatti un’umanità opulenta, scomposta e sgraziata, in cerca di frivolezze ed evasione, cui si contrappongono gli sforzi senza sosta del personale della struttura…
“Per quasi mezzo secolo – ha raccontato Polański – ho frequentato un luogo in Svizzera dove si trova un hotel di lusso. Ho osservato la vita di questo albergo, dove soggiorna un’élite estremamente ricca e poliglotta, attorno alla quale si muove il proletariato dell’hotel. Questi due mondi sono, a loro modo, esilaranti, a volte persino grotteschi. Tutto li separa, a partire dalle loro opinioni politiche. Li unisce solo la figura del direttore dell’albergo, che si prende cura di tutti e cerca di accontentare tutti”.
Le intenzioni di Roman Polański sono chiare: comporre un quadro sociale esilarante, sguaiato e raggelante. Un’umanità fuori controllo che si presenta all’appuntamento del nuovo Millennio con timore e irriverenza. Di lì a poco il mondo cambierà velocità e passo. In questo ritratto, il regista sembra richiamare il recente successo di Ruben Östlund “Triangle of Sadness” (2022, Palma d’oro a Cannes75) come pure il brillante “C’est la vie. Prendila come viene” (2017) del duo Olivier Nakache e Éric Toledano.
Le qualità della regia di Polański non si discutono: è un grande maestro del cinema europeo. A ben vedere, il suo film “The Palace” non gira perfettamente a livello narrativo: le situazioni e i tanti i personaggi che mette in scena non sempre trovano adeguato approfondimento e incisività. E laddove la storia sembra incedere con difficoltà, sono gli attori a corroborarne intensità e dinamica: in testa Oliver Masucci, Fanny Ardant, Milan Peschel, Bronwyn James, Luca Barbareschi e Mickey Rourke. Nell’insieme, “The Palace” risulta un’opera brillante e godibile con quel suo tono ironico e pungente, una commedia nera che sconfina spesso nel grottesco; una proposta interessante, che però perde smalto e forza nello svolgimento. Complesso, problematico, per dibattiti.
“Vasco Rossi. Il Supervissuto” (Netflix, 27.09)
Che meraviglia la docuserie “Vasco Rossi. Il Supervissuto”, tra i titoli di punta della nuova stagione di Netflix, una produzione Solaris Media e Except. Non si tratta di un semplice racconto biografico di un artista della scena musicale: la docuserie offre un ritratto profondo e dettagliato del rocker italiano, partito da Zocca e arrivato a riempire gli stadi con concerti evento – su tutti Modena Park del 2017, dove tocca il record internazionale di presenze con le oltre 220 mila partecipanti – in quarantacinque anni di carriera, iniziata alla fine degli anni ’70.
Vasco si racconta con onestà, senza filtri, tratto distintivo del suo carattere ma anche del suo stile musicale: si mette in dialogo con la macchina da presa, dunque con lo spettatore, in una conversazione fiume – la docuserie è stata realizzata in due anni, durante la pandemia – tesa a ripercorrere le origini, la comunità di amici di Zocca nel modenese, le ambizioni, i sodalizi musicali (tra i tanti, quello con Gaetano Curreri), il rapporto con la moglie Laura Schmidt – l’unico amore di Vasco, la sua “scelta rivoluzionaria” –, il legame d’amicizia e impegno sociale con don Luigi Ciotti.
Vasco si mette in dialogo su tutti i temi, anche i più scomodi: ripercorre il periodo di uso della droga e l’esperienza del carcere, la depressione, il pensiero della morte, la malattia virale che lo ha costretto a un lungo ricovero, fino al duro impatto con il Covid-19 e l’isolamento sociale. L’artista non si nega, in niente, apre il suo cassetto della memoria e lo scandaglia a fondo.
E ancora, la bellezza della docuserie “Vasco Rossi. Il Supervissuto” risiede proprio in questo flusso di coscienza, di ricordi, che viaggia torrenziale e coinvolgente, capace di ricomprendere anche l’atto creativo di molti suoi brani divenuti poi cult. Il rocker svela come a ispirarlo sia sempre stata la realtà, la vita di tutti i giorni: dall’osservare una corriera dalla sua finestra di casa allo sguardo che si perde su una vallata, alla perdita di un amico caro. La vita, insomma, in tutta la sua forza, bellezza e tragicità. Questo è alla base della vis poetica di Vasco Rossi, che lo ha portato a scrivere canzoni sempreverdi come: “Albachiara”, “Bollicine”, “C’è chi dice no”, “Gli angeli”, “Sally”, “Siamo soli”, “Un senso”, “Eh… già”, “Una canzone d’amore buttata via”, sino all’inedito “Gli sbagli che fai”.
La docuserie, diretta da Pepsy Romanoff (Giuseppe Romano) e scritta dallo stesso regista insieme a Igor Artibani e Guglielmo Ariè, è un racconto che nelle cinque puntate mantiene un andamento compatto, cronologico, puntellato da una grafica fresca e da un montaggio equilibrato, sapiente, che mescola materiale di repertorio, immagini private e sequenze dell’intervista che Vasco Rossi ha rilasciato per il progetto. Entrano poi in campo, qua e là, anche i volti cari del mondo del rocker: dalla moglie Laura al figlio Luca, al sodale Gaetano Curreri; ancora don Luigi Ciotti, Valentino Rossi, gli amici di infanzia e i membri del team musicale del “Blasco”.
Al di là se si ami o meno lo stile e il repertorio del rocker modenese, la docuserie “Vasco Rossi. Il Supervissuto” risulta un racconto bellissimo, denso e arioso, che esplora la grandezza dell’artista, il suo fermento poetico-creativo, ma anche le tante fragilità dell’uomo. Un ritratto sfaccettato, dalla confezione forse un po’ “patinata” ma di certo dall’anima sincera, lontano dal banale. Una docuserie da vedere, e sì anche da canticchiare. Consigliabile, problematica, per dibattiti.