In questi giorni uno spot pubblicitario della Esselunga sta facendo un grande clamore, gratificando l’azienda di attenzioni e menzioni indubbiamente previste. Persino la Presidente del Consiglio è intervenuta, condividendo sui social le impressioni in lei prodotte dal cortometraggio. A un primo sguardo di superficie, tuttavia, sembra inspiegabile la bufera di contestazioni scatenate da certi ambienti, in cui qualcuno è arrivato a insultare con una volgarità e una ferocia inaccettabili la bambina protagonista dello spot. Una rabbia inspiegabile, perché la pubblicità in questione non fa che descrivere la situazione di fatto di un enorme numero di famiglie, che soffrono (inutile nasconderselo, ma proprio qui è il punto…) per la separazione dei coniugi e per tutto il corredo di complicazioni che tale separazione reca con sé per ciascuno dei membri della famiglia.
Fa soffrire o può dispiacere che venga ricordato, ma questa è la vita, oggi, per tante persone. I denigratori dello spot della Esselunga preferirebbero forse tornare ai cliché della “famiglia Mulino Bianco”, tutta sorrisi, messe in piega all’alba e coordinazione acrobatica tra i suoi fulgidi membri? Quella famiglia non esiste, non è mai esistita.
Esistono invece famiglie sfiancate da problemi economici sempre crescenti, famiglie che ogni mattina lottano per rilanciare con progetti che sorridano al domani, famiglie che devono sorreggere la fragilità di qualcuno dei suoi membri, famiglie che tutti i giorni devono ritrovare un equilibrio interno per trovarlo anche all’esterno… ed esistono, naturalmente, famiglie monogenitoriali, e anche (guarda un po’!) famiglie separate, famiglie in cui l’immaturità di qualche tratto o gesto, l’incomunicabilità accumulata, la stanchezza o la rassegnazione hanno vinto, inducendo marito e moglie ad allontanarsi.
E nessuno, di solito, è più felice di prima. A volte sollevato, non di rado temporaneamente (ed egoisticamente) euforico, spesso interiormente silenziato. Ma felice di avere fallito in una scelta importante fatta precedentemente, in una fase più fresca e ottimista della vita? Difficile crederlo. Di certo felici non sono i figli, anche quando, pur di non perdere lo sguardo approvante di mamma o di papà, entrano inconsciamente in alleanza con loro e li supportano in quelle decisioni che pure li straziano, diventando genitori dei loro genitori.
Le anime belle che hanno gridato all’indignazione sono arrabbiate perché è bastata una pubblicità di un supermercato per mostrare che “il re è nudo”, contaminando con il tema della sofferenza il roseo mondo delle scelte egoistiche e autoaffermative spacciate per ricerca di felicità.
E qui è inevitabile una citazione del recentissimo e argutissimo film su Barbie: tutti scintillanti e plastificati ballano come ogni giorno con un sorriso smagliante stampato sui visi perfetti, e a un certo punto Barbie, sempre sorridendo, chiede come nulla fosse: “Avete mai pensato di morire?”. La musica si ferma… e nel mondo di plastica rosa di Barbie inizia a entrare la realtà, guastando la festa.
La sofferenza va assolutamente censurata, perché la sofferenza, specialmente la sofferenza dei più piccoli, rovina il gioco, snuda la verità.
Guai a mostrare come reagisce un feto all’aborto che viene praticato su di lui (o lei): è una violenza (far vedere la reazione, non l’aborto…) che lede i diritti della donna.
Guai a descrivere gli stati emotivi di un figlio che vede il genitore abbandonare il tetto: e che ne è dei diritti dei genitori e della loro felicità?
Quello che la sofferenza degli innocenti snuda, è la durezza di cuore dei presunti adulti, e l’insanabile debolezza che nasconde.
Le lacrime di un bambino, la sua silenziosa malinconia che non parla per non turbare il genitore bisognoso di conferme, il cuoricino che si chiude per non sentire e non far sentire il dolore… tutto questo raggiunge quella parte dei nostri cuori induriti di adulti che non è ancora soffocata dalla maschera delle nostre menzogne, e lo fa risuonare di un’analoga sofferenza – ma la sofferenza, a chi non si fida dell’amore, fa paura, e si arriva a volere zittire prepotentemente chi ce la ricorda, chi, volente o nolente, la risveglia in noi.
Il Libro della Sapienza, scritto in un’epoca tanto simile alla nostra, decadente tanto quanto la nostra, descrive bene l’atteggiamento dei ricchi gaudenti pieni di sentimenti aulici e caduchi, che si scatenano come furie su chi gli ricorda la debolezza da cui vogliono fuggire:
“Dicono fra loro sragionando: ‘La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile. […] Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! Saziamoci di vino pregiato e di profumi, non ci sfugga alcun fiore di primavera, coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato. La nostra forza sia legge della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e chiama se stesso figlio del Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo’”. (Sap 2, 1-3.6-14).
È in questa paura della propria debolezza e fallacità che possiamo rinvenire la radice di tutte le intolleranze odierne che si scatenano contro ogni raffigurazione dell’ovvio e dell’evidente, vista come un’aggressione anche quando si limita a descrivere.