“I’m a Barbie Girl, in the Barbie World”. È l’attacco del brano dance-pop “Barbie Girl” del gruppo danese Aqua che ha invaso le classifiche radiofoniche nell’estate 1997. Circa venticinque anni dopo, il film hollywoodiano “Barbie” targato Warner Bros. si prepara a conquistare il botteghino. Diretto dalla regista Greta Gerwig (“Lady Bird”, “Piccole donne”), anche autrice della sceneggiatura insieme al regista-compagno di vita Noah Baumbach (“Marriage Story”, “White Noise”), il live-action “Barbie” è molto più di un’operazione nostalgia glitterata che omaggia la celebre bambola della Mattel, lanciata sul mercato nel 1959. Forte di una coppia di autori acuti e sofisticati, il film è una brillante riflessione sulla nostra società in chiave fluo e ultra-pop. Non sposa una prevedibile prospettiva di matrice femminista, bensì allarga il campo dello sguardo su femminile e maschile. Con ironia (e sarcasmo) disinnesca stereotipi ricorrenti e quell’agone competitivo infestato da retaggi di machismo. Protagonisti Margot Robbie e Ryan Gosling – fantastici! – nei panni di Barbie e Ken, che trascinano un ricco cast hollywoodiano. Il Punto Cnvf-Sir.
Se Barbie Land va in crisi
Esiste un mondo reale e, poco distante dalla costa californiana, Barbie Land. Un mondo magico nelle tonalità sgargianti del rosa, del turchese, dei colori pastello e fluo, nato sulla soglia degli anni ’60 e a tutt’oggi popolato da una moltitudine di Barbie e Ken, insieme ai loro amici Skipper, Stacie, Allan ecc. Ogni giorno è un giorno fantastico a Barbie Land, tutti sono felici, soddisfatti, pronti a fare festa tra spiaggia e party nelle case in collina. All’improvviso, però, si pone un problema: Barbie stereotipo (Margot Robbie), il prototipo originario, avverte un incontrollato disagio esistenziale. Ha un pensiero di morte. Superato l’imbarazzo, Barbie capisce che si è aperta una falla tra il proprio mondo e la società reale, così si mette in viaggio verso la California per trovare la bambina che ha smesso di sognare, di giocare, mettendo in pericolo Barbie Land. Ad accompagnarla in questa impresa è il primo Ken (Ryan Gosling), quello biondo platino, che non può stare (apparentemente) lontano da Barbie, perché trova la propria dignità di esistere solo se lei lo guarda. Giunti in California, Barbie e Ken scoprono le difficoltà che popolano il tempo presente: un sessismo diffuso e una cultura patriarcale che si è avvitata in un machismo imperante. Oltre a complicare la missione, questo mette in crisi le loro spensierate certezze…
Non è (solo) una lettura femminista
Classe 1983, Greta Gerwig è un’attrice, sceneggiatrice e regista che soprattutto nell’ultimo decennio si è fatta notare nel mondo cinematografico a stelle e strisce per il suo talento e per lo sguardo acuto. Dopo aver abitato un cinema per lo più indipendente, collaborando con l’altrettanto talentuoso compagno Noah Baumbach sul set di “Lo stravagante mondo di Greenberg” (2010) e “Frances Ha” (2012) la Gerwig ha infilato una serie di consensi e successi crescenti, tra copioni e regia: su tutti la commedia “Lady Bird” (2017, in corsa per cinque Oscar) e “Piccole donne” (2019, sei nomination agli Oscar e statuetta vinta per i costumi). Il suo arrivo a capo del progetto “Barbie”, in gestazione da tempo, ha fatto aumentare le attese verso il film, allontanando le aspettative di un live-action celebrativo dell’iconica bambola.
La Gerwig ha costruito un racconto che esplora il fantastico e il reale, tutto giocato sul divertissement brillante e irriverente. Anzitutto, ricorrendo a un’ambientazione che trasuda il cromatismo del mondo dei giocattoli Mattel, in testa l’uso del rosa-fuxia marchio di fabbrica di Barbie, l’autrice ha messo a tema la crisi di un mondo spensierato. Si è chiesta se siamo poi davvero così felici. Lo ha fatto generando in Barbie stereotipo pensieri cupi, di morte. Un cortocircuito visivo-narrativo che ha squadernato una traiettoria di racconto tesa a scandagliare il nostro vivere sociale tra sguardi di senso e sberleffi.
La Gerwig ha tracciato, attraverso l’espediente-metafora della Barbie, l’evoluzione femminile nella società dal 1959 a oggi. Barbie è stata tutto, manifesto di ogni professione e condizione sociale: è passata dal simbolo della bellezza occidentale anni ’60 con la sua chioma bionda a rappresentare ogni identità, minoranza e conquista. Questo però non sembra bastare più, ci dice la regista, perché il mondo risulta saturo di conflittualità e le donne sono schiacciate dal peso di aspettative, tra lavoro e famiglia, e con un rapporto con l’altro sesso ancora disseminato di maschilismo o dipendenze infantilistiche.
Al di là della narrazione giocosa, che oscilla tra il favolistico e la satira (affilata), l’opera della Gerwig avanza una riflessione tutt’altro che banale: un invito a superare stereotipi e guerre di supremazia tra sessi; ad apprezzare e valorizzare al meglio il femminile e il maschile. Un racconto che si fa portatore di un’idea di libertà, di indipendenza, di consapevolezza.
Un orizzonte creativo che abbraccia Kubrick e Collodi
La coppia Gerwig-Baumbach mette a punto un copione ricco di citazioni e riferimenti culturali. In evidenza, senza voler rovinare la sorpresa allo spettatore, c’è un riuscito e brillante omaggio a “2001: Odissea nello spazio” (1968) di Stanley Kubrick, all’epica sequenza di apertura del film. Barbie troneggia all’orizzonte, come il monolite nero, e questo manda in crisi l’umanità esistente aprendo all’evoluzione e alla ribellione sociale.
Ancora, qua e là è tutto un richiamare il coloratissimo mondo della Mattel, i vari modelli e personaggi che hanno arricchito l’universo Barbie, da Skipper a Ken. E con loro una carrellata di star che si sono messe in gioco tra parrucche e abiti sgargianti: dalla voce narrante del Premio Oscar Helen Mirren alla cantante Dua Lipa e all’attore-wrestler John Cena, rispettivamente Barbie sirena e Ken tritone. Sul fronte attori, tante le collaborazioni e i guest: America Ferrera, Will Ferrell, Kate McKinnon, Issa Rae, Alexandra Shipp, Michael Cera, compresi tre volti noti della serie “Sex Education”, ovvero Emma Mackey, Connor Swindells e Ncuti Gatwa.
Un passaggio marcato da poesia (mai privo però di lampi di ironia) lo si rintraccia nell’incontro tra Barbie stereotipo e la sua creatrice Ruth Handler (Rhea Perlman), che le ricorda come l’intuizione sia nata vedendo giocare la figlia Barbara. In particolare, la figura di Ruth interviene per ribadire alla sua creatura, alla sua bambola, che è stata pensata per essere libera, capace di scegliere e determinare il proprio domani. Una riflessione-soluzione visiva nel film che sembra apparentarsi alla fiaba di Carlo Collodi, “Pinocchio”.
“Barbie” (con)vince
La regista-sceneggiatrice Greta Gerwig (con)vince. “Barbie” poteva rappresentare un inciampo, un pantano, per un’autrice più a suo agio in produzioni indipendenti. E invece si è messa in gioco con una macchina ad alto budget componendo un’opera che è sì ricreativa ed effervescente, ma di certo non evanescente. Al di là del fluo e della dominante ultra-pop, e sorvolando furbizie ideative tese al compiacimento, il racconto dimostra di possedere densità e sguardi di senso. Certo, il rischio di una scivolata nel banale era dietro l’angolo, ma la Gerwig si è dimostrata acuta e scaltra, tenendosi ben lontana dal facile prevedibile. Più orientato al mondo adulto per i temi e le riflessioni in campo, “Barbie” è consigliabile, problematico, per dibattiti.