Premetto che il CAI ha già ampiamente fatto marcia indietro circa la polemica, avviata da uno scrittore loro associato, sul senso delle croci poste sulle cime dei monti; il presente articolo non vuole quindi essere una risposta (tanto meno una contestazione) alle asserzioni, prontamente rimangiate, del CAI, ma piuttosto vuole prendere spunto da quanto scritto in più riprese sul suo portale Lo Scarpone per una riflessione sul significato di quelle croci.
Ci sono infatti due rischi opposti, che riecheggiano tutto il ronzio che di tanto in tanto si risolleva per la questione dei crocifissi nelle aule.
Il primo rischio, tipico delle “destre” degli atei devoti, è di ridurre la Croce a una bandiera o a un segnaposto, emblema di un’ideologia contro qualcosa o qualcuno, una croce senza Cristo e senza salvezza, stendardo di una presunta “cultura” che, non si sa mai perché, da Chi sulla Croce c’è stato appeso non vuole mai prendere spunto per amare e accogliere.
Il secondo rischio è quello espresso perfettamente dagli articoli di Pietro Lacasella comparsi su Lo Scarpone rispettivamente il 13 e il 23 giugno.
Nell’articolo del 13 giugno, che Lacasella inizia dandoci un’infarinatura di tanatologia, l’antropologo si chiede a un certo punto se la società odierna potrebbe mai giungere a identificarsi con tale simbolo (la Croce), e la risposta, ovviamente, è no.
Il motivo è che “l’Italia si sta rapidamente convertendo in uno Stato a trazione laica, territori montani compresi. Pertanto la croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale.”
Tralasciando l’enigma della “trazione laica”, la domanda sorge spontanea: quale sarebbe la visione completa, di cui la Croce sarebbe solo un’espressione parziale?
Si potrebbe rispondere facilmente con il pluralismo religioso, ma qui si ricadrebbe nel primo errore indicato: le Croci non venivano messe in cima alle montagne come distintivi culturali e religiosi (lo stesso autore dell’articolo ha dovuto ammettere che allora, a suo dire, erano tutti cristiani); il motivo era più profondo, e in questo ci troviamo d’accordo con Lacasella: la montagna “è un elemento paesaggistico che, per ovvie ragioni, da sempre si carica sulle spalle una gravosa valenza simbolica”. Nel simbolismo della montagna, che già da sempre è potentemente spirituale, la Croce veniva posta per dare alla cruda trascendenza allusa dalle rocce e dalle nubi il Volto dell’amore.
Quelle croci in cima ai monti furono poste, ed è bene che continuino a esserlo, non per affermazioni culturali in un periodo in cui non ce n’era bisogno, ma per domare in un certo senso il mistero e la fatica associandole alla sicurezza della fede, e ricordare a chi arriva in cima che vivere, prima di essere una scalata, è possibile perché c’è stata una discesa (di Dio a noi), e che quindi tutto è dono: l’aria, le rocce, il sangue che pompa nelle vene, gli orizzonti ampi, i paesaggi mozzafiato… tutto è dono di un Amore più grande.
Al contempo, una Croce sulla cima di un monte lo trasforma in qualche modo in una replica del Golgota, e questo è un aspetto interessante, perché se si arriva ai vertici del mondo, e da lì si contempla tutta la bellezza possibile della creazione, comunque ci si ferma al Venerdì. Per quanto l’uomo possa salire, non può andare oltre al Calvario. Il monte, che in qualche modo sintetizza tutto il cammino dell’uomo nel mondo, lo ammonisce al contempo che con le sue sole forze naturali non può fare Pasqua, ma tutt’al più testimoniarne l’unico pezzo che il mondo può capire. Per andare oltre la Croce, per staccarsi dalla vetta e raggiungere quel Cielo che per quanto sembri vicino alla cima resta comunque irraggiungibile, serve la grazia di Dio. L’uomo che arriva in cima al monte, e lì trova un Croce, attesta al contempo la grandezza e il limite della sua natura.
Infine, la Croce posta sulla roccia trasforma il mondo intero in un altare, e l’uomo in cima al monte presso la Croce si ricorda che è sacerdote. L’uomo è sacerdote per natura, perché continuamente transustanzia il mondo in anima e l’anima in mondo, e rimirando il paesaggio dalle vette, che se ne renda conto o meno, che ci creda o meno, fa l’atto sacerdotale per eccellenza: rende grazie.
Ricordarci l’amore, ricordarci il nostro limite, ricordarci la nostra dignità sacra: ecco lo scopo delle croci in cima ai monti, che forse ci conviene tenere.
Se ad alcuni pare che meglio sarebbe smettere di mettercene, e la cosa in sé, per carità, non ci fa problema, se tutto si deve ridurre a puntiglio, è pur vero che in una concezione finalistica del reale si potrebbe fare un’osservazione del tutto opposta (e sicuramente contraddittoria per la mentalità mondana): le cime dei monti sembrano fatte apposta per essere adornate dalla Croce, quale coronamento spirituale del loro premere verso l’alto.
D’altronde chi di noi, credente o non credente, salendo in cima a un monte, arrivato alla Croce non ha ritenuto di essere giunto davvero alla mèta?