Non era sua intenzione fare una strage in classe, come ormai avviene di frequente nei college degli Stati uniti, tanto che ha fatto allontanare i compagni per proteggerli. Aveva un piano ben preciso: colpire l’insegnante che, a suo dire, ce l’aveva con lui. Che cosa si nasconde dietro il gesto dello studente che ieri ha accoltellato una sua professoressa in un istituto di Abbiategrasso, nel milanese? Vicenda che segue di pochi mesi il gravissimo gesto di bullismo, filmato e condiviso su TikTok, che ha visto lo scorso ottobre vittima un’insegnante di Rovigo, colpita in classe dai pallini di una pistola ad aria compressa. Lo abbiamo chiesto a Mara Bruno, responsabile con Michela De Luca dell’Area età evolutiva dell’ Itci (Istituto di terapia cognitivo interpersonale) di Roma.
Dottoressa, la violenza è ancora una volta entrata in classe. Come legge questo ultimo episodio? Che cosa sta accadendo ai nostri ragazzi?
Dobbiamo anzitutto considerare che i nostri adolescenti vivono in una società alienata, competitiva e accusatoria. Molto spesso noi adulti non riusciamo a dialogare con loro; tantomeno, purtroppo, ad ascoltarli. Soprattutto in questa fase conclusiva dell’anno scolastico vivono sotto pressione, tormentati dalla paura di fallire e sentendosi perennemente minacciati dal giudizio di una società in cui c’è posto solo per modelli di eccellenza. Una vera e propria pressione sociale che li porta ad alienarsi perché
si sentono costretti a tenere alta la propria reputazione e non hanno il coraggio di raccontarci le loro paure: è questo il vero problema.
Si sentono come ingabbiati senza via d’uscita. In questi giorni mi capita spesso di parlare con ragazzi alle prese con le ultime interrogazioni, vissute come una trappola. Ogni eventuale interrogazione andata male è la conferma di essere sbagliati e inaccettabili.
In questi ultimi tre anni è aumentato esponenzialmente il malessere psicologico e il conseguente uso di psicofarmaci tra i giovanissimi…
A volte dimentichiamo che siamo in un momento storico post pandemico, una fase nella quale gli studenti si dichiarano sempre più nervosi e disinteressati alla scuola. Forse non teniamo abbastanza conto del fatto che con il Covid molti ragazzi non hanno studiato mentre la didattica a distanza non ha fatto altro che comportare un calo delle loro competenze didattiche e capacità di sforzo. Se continuiamo ad ignorare questo aspetto, il disagio diventerà sempre più importante.
Come intervenire?
Occorre rieducare i nostri figli, più che alla didattica alla socialità, alla solidarietà, al rispetto del compagno e dell’insegnante.
Dobbiamo allenarli alla responsabilità, all’impegno, alla conoscenza di sé stessi.
Oggi gli adolescenti si conoscono poco: conoscono molto bene il loro io ideale, ma molto meno il loro io reale. Ciò comporta una non accettazione di sé, e senza validazione dell’autostima non ci può essere un processo maturativo.
Ma questo basta a giustificare un atto di violenza come quello di ieri?
Certamente no, ma può aiutarci a capirne un po’ di più. I ragazzi si sentono inadeguati, incapaci di tollerare qualsiasi tipo di frustrazione; di qui scatta il loro meccanismo difensivo verso la società. Il ragazzo che ieri ha ferito la sua insegnante non ha nulla a che fare con gli autori delle stragi nei campus americani, né con i bulli di Rovigo. Da giorni aveva iniziato a mandare importanti segnali – il gas puzzolente in classe, la lezione interrotta spegnando la lavagna luminosa – che sono stati probabilmente sottovaluti. Come spesso accade, non sono stati colti nella modalità giusta, ma letti come scarsa voglia di studiare. Invece
dobbiamo soffermarci su quei segnali muti, a volte ambivalenti, che però parlano di un profondo malessere.
Per circa due anni sono stati in stand-by ed hanno perduto anche le competenze relazionali, quella quotidianità di relazioni con i compagni che costituiva un grande punto di forza.
Che cosa consiglierebbe ai genitori?
È fondamentale che mantengano aperto il dialogo, che creino un clima positivo e sereno dando la possibilità ai figli di raccontarsi. Non possiamo soffermarci solo sul rendimento scolastico; dobbiamo andare oltre dando importanza ai loro segnali e, al tempo stesso, insegnare a tollerare gli insuccessi senza iperproteggerli evitando loro di misurarsi con la prova o con il problema da affrontare. Occorre fortificarli, supportarli facendo capire che ogni fallimento è un insegnamento, ci dà la possibilità di crescere. Invece vedo genitori che tendono ad assecondare i figli nel tentativo di preservarli dal disagio – scolastico e non -; ma questo alla fine non comporta altro se non una conferma e un rinforzo delle immagini negative che i ragazzi hanno già di se stessi.