Un’altra serata con il Boss

Ritorna il pensiero del tempo che passa e di quello che rimane della nostra vita, presente nei due film che ha fatto “Western Stars” e “Letter to you”, e presente nel suo show di Broadway, dove chiudeva ricordando le parole del Padre Nostro. Come scrive nella sua autobiografia, quando torna a casa cercando il suo imponente faggio rosso, e lo trova abbattuto, “l’impronta del mio albero, della mia vita, era ancora chiaramente visibile. Nessuna ordinanza e nessuna lama potevano cancellare la vita del mio grande albero.” A noi rimane l’ennesima serata trascorsa con un suo concerto, insieme a migliaia di altre persone sconosciute, le sue canzoni e la loro musica. Non è poco, è moltissimo. Lunga vita a Bruce Springsteen e alla heart-stopping, house-rocking, earth shocking, legendary E Street Band

(Foto ANSA/SIR)

Un boato. Alle 19,30 circa dello scorso 1° aprile, al Madison Square Garden, a New York, si spengono le luci. Improvvisamente il MSG è apparso gremito in ogni ordine di posti. Entra per primo Roy Bittan, seguono gli altri membri della E Street Band, sino a Little Steven, cappotto e cappello a falde larghissime. Già c’è il tripudio nel pubblico. Poi entra Bruce Springsteen, 73 anni e mezzo, da Freehold, New Jersey, e i 21.000 presenti lo accolgono con un boato. La percezione è veramente notevole.
Sarà che aspettavamo tutti la tourneé fermata dal Covid (tourneé che, almeno per la parte europea, si sarebbe dovuta aprire con una serie di concerti a San Siro a Milano). Sarà che qualcuno (confesso di pensarci anch’io) teme che questo meraviglioso gruppo di settantenni possa un bel giorno decidere di smettere di andare in giro a fare concerti e lasciarci orfani di questi eventi.
Sarà che è presente un po’ di timore per l’esecuzione … chissà come se la caverà a 74 anni ? Il boato è liberatorio, è accoglienza, è voglia di passare ancora un’altra sera insieme.

È entrato e non aspettavamo altro.

Comincia il concerto con No Surrender, seguita da Ghosts, secondo una scaletta abbastanza bloccata. Non sono previste richieste di canzoni da parte del pubblico, le variazioni rispetto ai concerti precedenti del tour sono più contenute.
Procede con Prove it all night, canta The promised land (blow away the dreams that break you heart), Out in the street e prosegue senza sosta.
Dopo i primi pezzi entrano prima la sessione di fiati (4 musicisti in aggiunta al sax di Jack Clemons,) e poi i 3 coristi. Non sono una novità. Anche in altri tour erano presenti.
Rafforzano il suono, le voci e rallegrano le esecuzioni.

Non salta più come un canguro (descrizione di Beppe Severgnini del concerto di Milano di 20 anni fa sotto la pioggia – c’ero, il primo a cui ho portato la mia futura moglie, allora perplessa e oggi fan a tutti gli effetti, uno spettacolo -), riduce molto l’uso della passerella che passa attraverso il pubblico, non si lancia dalla passerella sul pubblico per farsi riportare sul palco passando di mano in mano (l’ho visto a Chicago, aveva solo 67 anni!). Ha persino ridotto la durata del concerto. “Solo” 3 ore, rispetto alle normali circa 3 ore e mezza (che invidia per il concerto di quasi 4 ore in Finlandia!).

Dell’ultimo album di cover inserisce Nightshift dei Commodores, che chiude in versione blues.
Canta senza sosta accompagnato dalla sua band e dal pubblico presente, che lo accompagna per tutta la durata dello show, sapendo cosa fare al momento giusto. Il MSG pieno di braccia alzate alla parola Trapped (di Jimmy Cliff) è impressionante.
I fiati chiudono Johnny 99 in stile “New Orleans”.
Mi pare di percepire una maggiore presenza di seconde voci che lo accompagnano, principalmente quella di Little Steven.

Suonano, lui e i suoi Streeters, a memoria, per l’ennesima volta (Badlands, secondo quanto riportato da Brucebase, sarebbe stata eseguita per la milleduecentoventinovesima volta).
A New York regala 11 minuti di Jungleland. Con un livello di professionalità altissimo. La musica sembra più leggera (è l’impressione vedendo ora i video che si trovano su YouTube), senza forzature.
Ci sono momenti in cui sul palco sono schierati in cinque a cantare con l’aggiunta dei tre coristi di supporto.
L’esecuzione di Thunder Road è quasi una ballad. Tutti vogliamo lasciare una città di perdenti, per andare a vincere.
Con Born to run si comincia a temere la fine del concerto. Tutte le luci accese, è una festa. Segue Rosalita, allegra, divertente, coinvolgente. Per il pubblico è l’ennesimo concerto che appare essere speciale. Ognuno di noi pensa che a quel concerto lui c’era. Non pensi alle repliche. Ogni concerto è diverso dall’altro, o così è vissuto. Nonostante ci sia dietro una professionalità altissima, uno studio di ogni gesto e movimento.
Forse lo aiuta essere del New Jersey, visto che la sua autobiografia si apre dicendo che la città da cui viene è piena di impostori “e io non faccio eccezione”.

È un cantore dell’America lavoratrice, che ha i due terzi del suo pubblico in Europa, una terra diversa dagli Usa legata al sogno americano – autocostruito – che certo non è l’America di Bruce. Ma così é.

È arrivato in Europa a Barcellona il 28 aprile, con Michelle Obama corista per Glory Days. In italia suonerà il 18 maggio a Ferrara, dopo tre giorni a Roma e chiuderà a Monza il tour europeo a luglio.
Nello spettacolo che ha tenuto a Broadway, Sprinsgteen in apertura dice di non aver mai lavorato, neanche un giorno, ma di avere costruito la carriera parlando delle persone che lavorano. “Ho inventato tutto”, conclude.

Il concerto è meraviglioso, forse il più bello. Un’atmosfera fantastica.

Dopo Dancing in the dark, in cui non invita una ragazza a ballare con lui sul palco (altra differenza rispetto al passato), arriva Tenth Avenue Freeze-Out, in cui ricorda gli amici e compagni scomparsi Clarence Clemons (Big Man) e Danny Federici.
Dopo avere salutato tutti i suoi compagni, torna tra il suo pubblico e dopo 3 ore, a 73 anni, da solo con chitarra e armonica, con voce ferma, canta I’ll see you in my dreams, canzone anch’essa dedicata a chi non c’è più.
Ritorna il pensiero del tempo che passa e di quello che rimane della nostra vita, presente nei due film che ha fatto “Western Stars” e “Letter to you”, e presente nel suo show di Broadway, dove chiudeva ricordando le parole del Padre Nostro.
Come scrive nella sua autobiografia, quando torna a casa cercando il suo imponente faggio rosso, e lo trova abbattuto, “l’impronta del mio albero, della mia vita, era ancora chiaramente visibile. Nessuna ordinanza e nessuna lama potevano cancellare la vita del mio grande albero.”
A noi rimane l’ennesima serata trascorsa con un suo concerto, insieme a migliaia di altre persone sconosciute, le sue canzoni e la loro musica. Non è poco, è moltissimo.
Lunga vita a Bruce Springsteen e alla heart-stopping, house-rocking, earth shocking, legendary E Street Band.

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