Al termine dei tre mandati previsti dallo Statuto, il professor Claudio Marazzini ha lasciato l’incarico di presidente dell’Accademia della Crusca che ricopriva dal 2014 ed è stato nominato presidente onorario. Nuovo presidente dell’Accademia è stato eletto Paolo D’Achille, fino a oggi vicepresidente.
Professor D’Achille, di che cosa si è occupato in particolare durante la sua vicepresidenza dell’Accademia della Crusca?
Sono stato in carica come vicepresidente per meno di un anno. Ho sostituito il presidente Marazzini in alcune occasioni e svolto in sua vece i normali compiti amministrativi. Per il resto, ho continuato a svolgere il mio compito di responsabile del Servizio di consulenza linguistica dell’Accademia, dando il mio imprimatur alle risposte e alle schede neologiche predisposte dalla redazione. Ho presentato il volume mondadoriano “Giusto, sbagliato, dipende”, che ho curato con Marco Biffi; ho partecipato alla terza tornata di quest’anno, in cui è stato presentato un progetto sul purismo di una collega che insegna all’Università di Tubinga; ho tenuto la prima lettura di Dante in presenza presso la Società dantesca italiana; insieme all’attuale vicepresidente Rita Librandi, ho predisposto un tema del mese sul sito dell’Accademia.
Qual è a suo giudizio il ruolo attuale della Crusca nel panorama accademico e culturale?
La Crusca potrebbe avere un grande ruolo: oltre a essere custode della tradizione linguistico-letteraria italiana (attraverso la Biblioteca, l’Archivio, ecc.), si occupa anche della lingua di oggi; tra gli accademici ordinari e gli accademici corrispondenti italiani ed esteri annovera studiosi e studiose di primissimo piano; c’è poi una équipe di giovani che lavorano su vari progetti (il già ricordato Servizio di consulenza linguistica, il “Vocabolario dantesco”, il “Vocabolario della marina”, tanti altri settori). Collaboriamo con altre accademie italiane ed europee, con molti atenei e centri di ricerca e col mondo della scuola. Rispondiamo sempre positivamente alle richieste che vengono dalla società civile e dagli ordini professionali (corsi per giornalisti, magistrati, ecc.) e dalle istituzioni (collaboriamo col ministero degli Esteri per la Settimana della lingua italiana del mondo e con il ministero dell’Istruzione per i Campionati di italiano). Su certi temi, probabilmente, potremmo fare ancora di più.
Quali sono i punti salienti del suo programma? Anche in merito al rapporto con scuole, università, istituzioni…
Non ho presentato un programma perché la tradizione accademica non prevede che ci siano candidature e programmi.
Posso però dire che, in continuità con tutti i miei predecessori, cercherò di rafforzare e ampliare i rapporti che già esistono, i progetti che sono già partiti; spero di poter proporre anche ricerche su campi meno battuti e di coinvolgere più spesso l’intero corpo degli accademici alle iniziative che via via intraprenderemo.
Come giudica lo stato di salute della lingua italiana oggi?
In generale, abbastanza buono: l’italiano è ormai madrelingua per la maggior parte della popolazione (che in passato, invece, nasceva dialettofona), compresi i figli di immigrati ormai stabilizzati nel nostro paese (i cosiddetti “nuovi italiani”). Abbastanza soddisfacente (anche in rapporto alle limitate risorse) lo studio dell’italiano all’estero. Però i dislivelli di competenze linguistiche presso i giovani aumentano, in rapporto alle diverse classi sociali e la scuola sta un po’ perdendo il suo ruolo di “ascensore sociale”, forse anche perché lo studio della lingua e della letteratura italiana non è più considerato centrale. Si sta poi allargando la forbice tra la lingua di oggi e la lingua del passato, della tradizione letteraria che fa capo a Dante; è necessario un maggior dialogo intergenerazionale e bisogna che l’insegnamento/apprendimento della lingua (anche nelle sue strutture grammaticali) e della letteratura italiana, adeguatamente rinnovato, sia più gratificante per docenti e discenti.
Cosa pensa dell’eccesso di anglismi?
Le parole straniere entrano in un’altra lingua in rapporto al prestigio della lingua da cui provengono (si parla, impropriamente, di “prestiti”). Se l’inglese (o meglio l’angloamericano) è oggi dominante in tutto il mondo, ciò deriva dal fatto che i Paesi anglofoni sono all’avanguardia in certi settori (e certo la globalizzazione aiuta a diffondere tanto l’inglese in generale quanto gli anglismi), è normale che il numero degli anglismi cresca anche nella lingua comune. Che però ricorra spesso all’inglese anche la comunicazione degli enti pubblici (nazionali o regionali), che si rivolgono all’intera cittadinanza (composta di molte persone che non conoscono l’inglese) mi pare inaccettabile.
E poi ricorrere all’inglese quando abbiamo già le parole per esprimere gli stessi concetti mi pare inutile.
E cosa invece dei neologismi?
Le neoformazioni costituiscono la maggior parte del lessico di ogni lingua e che si ricorra a neologismi per esprimere nuovi concetti e indicare nuovi oggetti è normale. Ci sono però parole ben formate (e quindi trasparenti anche a chi non le ha mai sentite prima) e parole mal formate (destinate per lo più a esaurirsi). Si parla ancora del caso di petaloso, risalente a vari anni fa: se quella parola non ha attecchito è perché, pur essendo ben formata, era inutile in quanto tutti i fiori, per definizione, hanno i petali, e li hanno solo loro.
Le parole alla moda che vorrebbe togliere dal parlare comune della gente?
Se si tratta di parole di moda, usciranno da sole (la moda cambia rapidamente), senza bisogno di interventi. Non voglio però eludere la domanda e le dirò che la pronuncia di performance con l’accento sulla prima sillaba, mi infastidisce, tanto più perché non corrisponde alla pronuncia inglese.
I giornali sono in crisi, si legge sempre meno. Questa inversione di tendenza come ha cambiato la nostra lingua? Internet favorisce la corretta diffusione dell’italiano?
Per la verità la lettura è sempre stata alquanto scarsa nel nostro Paese. È vero però che la lettura su Internet, compresa quella dei quotidiani, è oggi diventata predominante.
Certo, il nuovo mezzo ha avuto conseguenze anche per la nostra lingua: l’ha semplificata nelle strutture sintattiche (il che potrebbe anche essere un fatto positivo), ma l’ha anche un po’ impoverita, perché la fretta della composizione e l’assenza di rilettura porta spesso a usare frasi fatte, ad adoperare parole con un significato approssimativo, a non dominare appieno l’impianto testuale e informativo.
Quante lingue e gerghi ci sono oggi nella nostra società? Esiste per esempio uno slang giovanile?
Beh, se parliamo di lingue, ce ne sono moltissime: intanto lo stesso italiano può essere declinato in molte varietà (scritte, parlate, trasmesse, regionali, settoriali, ecc.), e poi abbiamo lingue delle minoranze alloglotte, dialetti (che sono lingue a tutti gli effetti sul piano strutturale), lingue dei nuovi immigrati. La componente gergale, che in passato è stata propria di varie categorie professionali (oltre che della malavita), mi pare oggi meno attiva che non in passato, ma pure resiste. Uno slang giovanile c’è (e al tema è stata dedicata l’ultima Settimana della lingua italiana del mondo), ma è in continuo cambiamento. Però la sua analisi ci consente anche di individuare alcune tendenze generali della lingua, come per esempio gli accorciamenti di parole considerate troppo lunghe (compresi i nomi e i cognomi, i toponimi).
Quanto permane tra la popolazione più anziana l’uso di termini ormai quasi dimenticati dai più giovani?
La differenza tra la lingua degli anziani e quella dei giovani è forse quella più rilevante nel panorama linguistico attuale: si tratta di oggetti che non si usano più (penso alla gerla, che rientra tra i simboli della nostra accademia, perché conteneva il pane), ma anche di capi d’abbigliamento che ora vengono rinominati con parole inglese, di concetti della cultura tradizionale e della sfera religiosa. Vero è che alcuni vocaboli che sembrano destinati a scomparire possono, per le circostanze più impensate, ritornare di moda.
Cosa resta dei dialettalismi? La lingua italiana attuale ha ancora un riferimento al toscano?
I dialettalismi sono tuttora presenti e anzi alimentano il lessico italiano (per esempio nel campo della cucina). Il riferimento al toscano sussiste nelle strutture fonetiche e morfologiche dell’italiano, che ne mostrano la loro sostanziale fiorentinità.
Meno rilevante è l’apporto del toscano per quanto riguarda la fonetica (l’italiano di Firenze si deve considerare una varietà locale come quelle di Torino, Milano, Roma e Napoli), la fonologia (certe “idiosincrasie fiorentine” non sono più attive nell’italiano di oggi) e anche nel lessico (in cui le parole toscane cedono spesso ai geosinonimi settentrionali, romani e meridionali.
Infine la questione del genere. Che ne pensa delle forme linguistiche inclusive, a cominciare dallo schwa?
Mi sono espresso su questo già in vari contributi apparsi sul sito dell’Accademia e rimando a quelli: posso dire che accolgo tutte le femminilizzazioni dei nomi di cariche e professioni un tempo solo maschili e che ritengo che lo schwa sia inapplicabile a una lingua come l’italiano a tutti i livelli di analisi linguistica (grafia, fonetica, fonologia, morfologia, lessico, sintassi e testualità).
Lei, romano doc, come si trova a Firenze? Un pregio e un difetto dei toscani?
Mi trovo bene: Roma è stata la prima città a toscanizzare il suo dialetto e ci sono tratti comuni tra romano e fiorentino. Ci sono anche alcune differenze (pensiamo al caffè che io a Roma ordino “lungo” e a Firenze “alto”), ma non compromettono la comprensione. Quando si parla di pregi e di difetti con riferimento agli etnici si cade negli stereotipi. E poi so per esperienza che a ogni pregio corrisponde inevitabilmente un difetto. Però direi che la caratteristica che più mi colpisce dei toscani è il loro campanilismo, il senso identitario cittadino più che regionale. Ma questo vale un po’ anche per i romani, che non si sentono laziali, a meno che non si tratti di tifosi della Lazio (ma io, oltre che romano, sono anche romanista!).