Dal 4 maggio è nei cinema “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, il nuovo film di Pupi Avati, con Gabriele Lavia, Edwige Fenech e Lodo Guenzi, che si è già posizionato tra i primi del box office. Avati è uno dei maestri del cinema italiano, che si è sempre distinto per la capacità di raccontare memoria e tradizioni del Paese muovendosi tra realismo e poesia, alternando pagine di diffusa dolcezza a sguardi malinconici. Autore di oltre 50 titoli tra grande e piccolo schermo nel corso di cinque decenni – “Il cuore altrove”, “Gli amici del bar Margherita”, “Un matrimonio”, “Lei mi parla ancora” e “Dante” -, ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui 3 David di Donatello e 7 Nastri d’argento. Lo abbiamo incontrato per una riflessione sul cinema, tra vis poetica e dimensione del Sacro.
Lei ha dichiarato che “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” è molto personale. Ci vuole spiegare perché?
Vado ad affrontare un arco narrativo molto lungo, che parte dalla mia primissima adolescenza, quando – come tutti – avevo l’ardire di poter attendere dalla vita cose straordinarie. Pensavo che la musica mi desse quella possibilità di raccontarmi, persino di essere famoso. Da lì la parabola si spinge all’oggi, dove con lucidità e serenità comprendo che la maggior parte della mia vita è ormai trascorsa. Così, come un drone, ho sorvolato i miei ricordi, cercando di capire cosa abbia parametrato i momenti più felici.
L’unità di misura della felicità?
Il giorno del mio matrimonio, quando mi trovai a poter sposare quella ragazza che avevo corteggiato per 4 anni. Mi sembrava che quella giornata fosse di una felicità senza pari. Posso affermare che lo è ancora. La temperatura della mia gioia di quel giorno penso di non averla mai più raggiunta. Ho ritenuto giusto rendicontarlo attraverso il cinema, sottolineando anche la distanza che spesso sperimentano le persone tra le loro aspettative e ciò che poi accade nella realtà.
Fa riferimento al personaggio di Marzio?
Sì. Nello specifico, però, c’è un aspetto fondamentale della storia che riguarda il ritrovarsi con una donna, Sandra – interpretata da adulta da Edwige Fenech –, che manifesta una capacità di rimuovere ciò che va rimosso, di saper ricominciare. Una donna che dipinge le pareti di casa di blu, una metafora che indica ancora fiducia nella vita, nel domani.
Anche in quest’opera ricorrono immagini e temi religiosi. Che rapporto ha con il Sacro? E quali le sfide nel proporlo sullo schermo?
Una volta eravamo in due, perché c’era Ermanno Olmi. Adesso mi sembra di essere rimasto solo… Giorni fa facevo una considerazione in pubblico, raccontando un passaggio del film quando alla protagonista Sandra viene diagnosticato un carcinoma ovarico e Marzio, dinanzi a questa situazione così complessa dove la scienza dimostra dei limiti, reagisce entrando in una chiesa per pregare. Si rivolge al trascendente in cerca di consolazione, di un aiuto, di ascolto e conforto. Ho chiesto alla platea se ricordasse un film recente con una scena simile, ma nessuno ha saputo rispondere. Allora mi viene da pensare di essere una sorta di eccezione. Nel film racconto anche la ricomposizione di un matrimonio dopo 37 anni: sono tutti elementi che vengono dal mio retroterra, dalla cultura cattolica, valori per me fondamentali. E continuo ostinatamente a riproporli, esponendomi a volte al dileggio. Credo comunque di manifestare una certa coerenza, non cedendo alle mode di un “proselitismo laico”, che priva della possibilità di intuire che ci sia dell’altro. Al mistero della vita e della morte la scienza ancora non riesce a dare risposte. E anche io mi domando sempre se sono riuscito a dare un senso alla mia vita.
Ci spieghi meglio.
Ultimamente ho registrato un’inversione di polarità nei riguardi della gioia: è molto più bello donarla, che riceverla. Prenda come paradigma il nostro modo di fare cinema, come ci rivolgiamo agli attori: io abitualmente vado a cercare non gli attori di tendenza, ma chi è stato emarginato, dimenticato o non ha ricevuto determinate opportunità. È il “Discorso della montagna”, “Le beatitudini”, il momento più alto del Vangelo, che rileggo tutte le sere: è la mia Costituzione. È la cosa più bella che ci sia, pronunciato da un ragazzo di duemila anni fa indicando come l’essere umano dovrebbe comportarsi nei riguardi del mondo, del prossimo.
Lei è uno dei cantori della memoria del Paese, abile nel rileggere pagine sociali e tradizioni. Che valore hanno per lei?
Sono fondamentali. Stiamo rimettendo in discussione tutto. Pensi alla famiglia, prenda per esempio la figura paterna, che di fatto si è defilata, dimessa, deresponsabilizzata. Pensi al fatto che è stata rimossa la locuzione avverbiale “per sempre”: non sentirà nessuno dire “per sempre” nei rapporti, nel matrimonio. Viviamo nella precarietà dei legami, non diciamo più “mio marito” o “mia moglie”, bensì il “mio compagno” o “la mia compagna”. È il tratto di una precarizzazione dei rapporti. Sarò probabilmente un vecchio “conservatore”, ma rivendico la qualità della vita attraverso una correttezza dei rapporti e nel rispetto degli altri.
Nel 2022 ha firmato il ritratto del sommo poeta, “Dante”. Che significato ha avuto tale progetto?
Non ho fatto altro che fare mia la lezione di Roberto Rossellini. Era un autore che aveva questo atteggiamento, sapeva ampliare la conoscenza delle cose, anche in tarda età. Così è accaduto a me: sono arrivato tardi alla bellezza del sapere, a trent’anni, perché nella prima parte della mia vita c’era la musica. Ho scoperto il piacere dello studio e ho deciso di condividerlo grazie al cinema. E che gioia ritrovare Dante, un Dante diverso da quello dei banchi di scuola. L’ho voluto far scendere dal piedistallo, renderlo prossimo, con un atto di riconoscenza risarcitoria. Sono orgoglioso che tanti ragazzi nelle scuole abbiano visto il film. Mi sconforta solo che in questi giorni l’Accademia del cinema italiano (Premi David di Donatello) non lo abbia considerato: è candidato solo per il trucco, per il naso di Dante. Io di certo continuo ad andare avanti, ma confesso che è un po’ faticoso. A tratti ci si sente soli, anche nei riguardi del mondo cattolico, di una certa comunicazione cattolica.
Ha ancora storie da realizzare?
Fortunatamente non ho sogni nel cassetto. Sin dai primi film, molto sessantottini, che oggi rimpiango come risultato dell’insipienza, perché non conoscevo bene il mezzo – Ingmar Bergman diceva che solo dopo 7 film aveva realizzato un’opera che gli assomigliasse –, sono riuscito a essere coincidente con il mio cinema. Non è presunzione, ma semplicemente consapevolezza di quello che faccio. Non ho particolari storie da raccontare, perché ho sempre proposto tutti gli anni la storia che desideravo. Non ho mai aderito ai salotti, all’“amichetteria” per dirla alla Fulvio Abbate, perché sono stato sempre molto “alternativo”. Non ho la frustrazione di film non realizzati. Per fare “Dante” ho impiegato 20 anni, ma alla fine ci sono riuscito.