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“Non è bene che l’uomo sia solo’”

Di solitudine si muore. Lo dice la medicina, ma in fondo il cuore ce l’ha sempre detto, quando ci ha fatto male perché ci sentivamo soli. Di solitudine si muore, perché “non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2, 18): l’uomo non è stato fatto per stare da solo, e questo non concerne solo la questione matrimoniale, ma lo stesso codice sorgente della natura umana. L’uomo è creato incompiuto, perché scopra nella relazione con i suoi simili il suo completamento, e in ciò ritrovi anche la sua vera identità di immagine di Dio, che è il Dio di relazioni, l’eterna Trinità

(Foto Siciliani/Gennari-SIR)

In una relazione molto preoccupante il dott. Vivek Murthy, medico membro della cerchia dei consiglieri dell’attuale governo americano, affronta gli effetti nocivi della solitudine per la salute. Il medico, autore peraltro di “Together. The healing power of human connection in a sometimes lonely world”, nella sua relazione lancia l’allarme circa la letalità della solitudine, intesa come vissuto interiore squalificante delle proprie relazioni, e dell’isolamento, che invece è una condizione più esterna di emarginazione e distanza.

Di solitudine si muore, dunque. Lo dice la medicina, ma in fondo il cuore ce l’ha sempre detto, quando ci ha fatto male perché ci sentivamo soli.

Di solitudine si muore, perché “non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2, 18): l’uomo non è stato fatto per stare da solo, e questo non concerne solo la questione matrimoniale, ma lo stesso codice sorgente della natura umana. L’uomo è creato incompiuto, perché scopra nella relazione con i suoi simili il suo completamento, e in ciò ritrovi anche la sua vera identità di immagine di Dio, che è il Dio di relazioni, l’eterna Trinità.

“Non è bene che l’uomo sia solo”, perché può arrivare a dimenticarsi che non è fatto per pensarsi al singolare e, abituandosi alla sua incompiutezza, potrebbe cadere nell’inganno tentatorio di iniziare a concepirsi come individuo autosufficiente, uno contro tutto il resto, sviluppando una mentalità calcolatrice che vagli tutto in base a quanto può arricchirlo e a quanto può ostacolarlo nella sua espansione (che è il modo della crescita dell’individuo). Salvo poi finire da solo, appunto, abbandonato dalla tentazione che prima l’aveva sedotto, disingannato sulle proprie possibilità di essere felice senza scomodarsi per gli altri, e condannato al vuoto disperante.

“Non è bene che l’uomo sia solo”, e questo vale anche per noi preti, proprio perché, come dicevamo, Dio non fa questa considerazione solo in vista dell’unione nuziale dell’uomo con la donna, bensì per definire il nostro destino di persone plasmate a immagine delle Persone.

Penso ai miei confratelli che, in tutto il mondo, arrivano a suicidarsi per solitudine, coperti poi da una coltre di silenzio e di vergogna… quanto veleno ideologico è stato per secoli inoculato nella visione del prete ideale, definito tale perché capace di “stare da solo” e dunque invitato a isolarsi, a trascurare affetti, amicizie, interessi condivisi… portando i più tra noi a stili di vita bizzarri (quando non aberranti, rasenti il barbonismo) pur di mantenere un precario equilibrio che da un lato preservasse un’ombra di umanità, dall’altro impedisse di piombare nell’abisso dei vizi compensatori (spesso non riuscendovi).

Abbiamo trasformato il celibato, che è fatto per amare di più ed essere inclusivi nell’accoglienza e nella fraternità, in una strana forma di singletudine, e il risultato sono tanti preti tristi.

Dobbiamo ricordarcelo: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Il futuro del celibato sacerdotale, che ne potrà rigenerare e preservare l’umanità e la fecondità, sta nella riscoperta della dimensione fraterna e comunitaria – ecco perché la Chiesa delle origini ha sempre connesso la scelta celibataria alla vita monastica, ovvero a un surplus di relazioni!

Sta nascendo tra i preti della mia generazione l’anelito della fraternità, che pure si deve scontrare con ostacoli innumerevoli, dettati da mentalità ormai consolidate in senso opposto sin dai tempi del seminario, nonché dal turbinio di attività continue e assai di rado appaganti, ma stranamente necessarie, che negli anni spengono un po’ la voglia di uscire, incontrare, fare, condividere. Nonostante tutto questo, si avverte la necessità di imparare a portare “i pesi gli uni degli altri”, a cercare e a dare empatia – a vivere l’amicizia, in breve. Un’amicizia che si spera fiorisca nella Chiesa di oggi e di domani in sperimentazioni e riscoperte di vita comune, tali da indurre a ripensare anche la presenza dei sacerdoti nelle parrocchie dislocate in un determinato territorio; d’altronde, avere un prete morto o depresso o esaurito fisso in ogni parrocchia non è molto più conveniente di averne tre o quattro che vivono felicemente insieme, anche a costo di vederli un po’ meno nelle parrocchie. Il primato dell’essere-con sul fare deve valere per tutti, se è un principio cristiano.

In attesa di vedere i primi germogli di questa urgentissima istanza, mi piace condividere un’esperienza di vita comunitaria che il Signore mi ha dato di avviare nel 2015.

Ricordo benissimo che un anno prima, mentre pregavo afflitto proprio dalla preoccupazione per la solitudine mia e di molti, il Signore accese nel mio cuore un’intuizione, che un anno dopo ha iniziato a realizzarsi, e così sono nate le prime Case di Koinoikia, la proposta di vita comunitaria rivolta ai giovani di Roma, finalizzata alla loro uscita dal nucleo familiare per emanciparsi, ma anche per imparare a vivere una rete di relazioni paritarie di cui prendersi cura, secondo lo spirito e la regola di vere e proprie piccole comunità fraterne. Ad oggi a Roma ci sono nove di queste Case, sei di ragazzi e tre di ragazze. Una delle Case dei ragazzi è ospitata dalla mia parrocchia, su richiesta dei miei superiori, ed è finalizzata in modo più specifico al discernimento vocazionale.

Cosa scoprono i giovani che entrano in questa esperienza? Che per imparare ad amare bisogna mettercisi, non è automatico né innato, e che si può essere amati con tutti i propri limiti e necessità. Si impara a spostare il baricentro da se stessi alla relazione, a prendersi cura (di altre persone e di una casa), a non concepire al singolare il proprio tempo. E così, terminata l’esperienza, che dura uno o più anni a seconda dell’esigenza della persona, si entra nel successivo passo della propria vita avendo imparato il lessico della vita comunitaria e della condivisione: cosa non di poco conto in prospettiva di un matrimonio o di una qualunque altra scelta vocazionale!

Il bisogno di comunità è sempre più urgente per un’umanità atomizzata dal comfort e dalle pandemie: stanno sorgendo ovunque esperienze di condomini solidali, cohousing, ecc. La Chiesa, che è per Dna comunione, non può non rispondere a questo bisogno innato dell’uomo con proposte di vita comune che ridiano alle persone il gusto di vivere, liberandole dal peso opprimente della solitudine.

In particolare la Chiesa di Roma, che sussiste in una città in cui i milioni di abitanti, in base alle indagini più recenti, risultano per la maggioranza vivere da soli, è chiamata a guardare questo deserto relazionale come l’ambito in cui riversare creatività, ingegno, e soprattutto amore, per edificare un modello, antico e sempre nuovo, di vita fraterna.

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