A colpi di rock, tra risate e malinconia. È “Guardiani della Galassia. Vol. 3” firmato James Gunn, nuovo e probabilmente ultimo capitolo sul team di eroi spaziali dal passato criminale. Dopo i primi due film della saga e le numerose incursioni in altri episodi Marvel, si giunge ora a un gran finale denso di azione, ironia, musica rock e temi rilevanti come il valore dell’amicizia e il rispetto della vita. Cast stellare: Chris Pratt, Zoe Saldana, Vin Diesel e Bradley Cooper. In sala anche il nuovo film di Pupi Avati, “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, racconto dalla consueta cifra dolce e nostalgica che si muove sul tappeto dei ricordi. Con Gabriele Lavia, Edwige Fenech, Lodo Guenzi e Camilla Ciraolo. Infine, su Netflix la miniserie “La regina Carlotta. Una storia di Bridgerton” targata Shonda Rhimes, spin-off della popolare serie ambientata tra età georgiana e Regency: amore romantico in tutte le sfaccettature, costumi sfarzosi, ambientazioni suggestive e mash-up musicali. Tema in evidenza la disabilità mentale. Il punto Cnvf-Sir.
“Guardiani della Galassia. Volume 3” (Cinema, 03.05)
Il regista-sceneggiatore statunitense James Gunn mette un punto definitivo (sarà vero?) al simpatico e bizzarro gruppo di supereroi spaziali dei Guardiani della Galassia. Dopo i fortunati “Guardiani della Galassia” (2014) e “Guardiani della Galassia Vol. 2” (2017) – entrambi hanno sfondato il tetto dei 700milioni di dollari –, l’autore ha deciso di scrivere la parola fine alle avventure di Peter Quill, Gamora, Rocket, Drax, Nebula, Mantis, Groot e Kraglin. Una conclusione che oscilla tra lampi di ilarità e commozione, confermando ancora una volta l’inconfondibile mix narrativo e stilistico. Un’opera che viaggia spedita e compatta, di certo più incisiva dei recenti Marvel “Thor: Love and Thunder” (2022) e “Ant-Man and the Wasp: Quantumania” (2023).
La storia. Pianeta Knowhere, i Guardiani della Galassia subiscono un duro attacco dal potente e strampalato Adam Warlock (Will Poulter), che riduce in fin di vita Rocket (Bradley Cooper). Per curarlo i Guardiani devono risalire al suo passato, al periodo in cui il suo corpo ha subito invasive operazioni e sperimentazioni per volontà dell’efferato Alto Evoluzionario (Chukwudi Iwuji)…
“C’erano tante cose che intuivo e molte altre di cui non ero a conoscenza, ma sapevo già che il cuore del racconto era rappresentato da Rocket e dalla sua storia, dal luogo da cui proveniva e da chi era”. Così James Gunn nel presentare la linea del terzo atto dei “Guardiani della Galassia”. Raccontando la travagliata vicenda del procione antropomorfo sottoposto a mutilanti esperimenti scientifici, l’autore avanza una bella e profonda riflessione sul valore della vita, il rispetto verso gli animali e il creato tutto, da preservare dalle ambizioni sregolate dell’uomo, dal suo volersi spingere oltre il perimetro (bio)etico. Altro tema centrale è l’amicizia, quel sentimento giocato tra condivisione e solidarietà, che spinge i Guardiani a rimettersi in pista nonostante gli affanni – in testa Peter Quill (Chris Pratt), che fa fatica a riprendersi dopo la fine della sua storia con Gamora (Zoe Saldana) –; insieme si battono per salvare Rocket, e al contempo provano a salvare anche loro stessi, (ri)donando senso al proprio agire.
Gunn porta a termine la sua trilogia mantenendo in equilibrio storia, stile narrativo e dinamiche del racconto: tutto gira in maniera agile, tra sguardi di senso e di evasione; gli attori, poi, stanno al gioco, tratteggiando con convinzione e divertimento i personaggi. La componente musicale, infine, fa il resto: una selezione di brani rock (pop) – da “Creep” dei Radiohead a “Dog Days Are Over” dei Florence and the Machine – che imprime ritmo e stile. Al di là di qualche incertezza, il film funziona e coinvolge. Consigliabile, problematico, per dibattiti.
“La quattordicesima domenica del tempo ordinario” (Cinema, 04.05)
Ha diretto oltre 50 film tra grande e piccolo schermo, misurandosi con un’ampia varietà di generi. È Pupi Avati, uno dei maestri del cinema italiano contemporaneo, che ha raffinato la sua marca stilistica soprattutto nel racconto della memoria del passato, dell’Italia del XX secolo, tra tradizioni contadine e spinte socio-culturali legate al boom economico. Avati è diventato il cantore dello spirito di un Paese proteso verso il domani, ma con un occhio rivolto sempre al ricordo dolce e malinconico del passato. Ora il regista bolognese è nei cinema con “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, produzione Duea Film, Minerva Pictures in collaborazione con Sky, nei cinema italiani con Vision Distribution.
La storia. Bologna anni ’70, Marzio (Lodo Guenzi), Samuele (Nick Russo) e Sandra (Camilla Ciraolo) sono tre ventenni pieni di ambizioni: i due ragazzi sognano un futuro nella musica e fondano il gruppo “I Leggenda”, mentre Sandra ha come obiettivo la moda. I loro percorsi si intrecciano, tra pagine di amicizia e amore. Con il passare del tempo, però, sogni e legami mutano di tonalità e forma. Anni dopo, Marzio (Gabriele Lavia), Samuele (Massimo Lopez) e Sandra (Edwige Fenech) si ritrovano, chiamati a fare i conti con guadagni e irrisolti…
“Il tempo ordinario – ha sottolineato Pupi Avati – indica quel momento del calendario liturgico in cui generalmente ci si sposa. E quel giorno di giugno del 1964 rappresenta per me una grande felicità: dopo quattro anni di corteggiamento la ragazza più bella di Bologna finalmente diventava mia moglie”. “Avevo la sensazione – ha aggiunto – che nella mia filmografia mancasse un’opera simile, di confidenze. Pertanto, ho realizzato questo film dove c’è molto di me”.
Avati compone dunque un’opera dove i fili della memoria si annodano con quelli del racconto di finzione, una storia che esplora la stagione del sogno giovanile acceso da desiderio di gloria e mosso da energie pulite, approdando poi in età adulta, dove le sfumature diventano dolenti e cupe. Il regista mette a tema il senso di fallimento, la disillusione che abita la stagione avanzata della vita; e lo fa con coraggio e delicatezza, abile nel cogliere stati d’animo e nel dare forma ai rimpianti. Anche se la storia non sembra sempre bene a fuoco, del tutto solida e compatta nei vari passaggi temporali, il film si rivela onesto e generoso, denso di sfumature di sentimento, di pagine esistenziali. È lo sguardo di una grande autore, che rilegge se stesso in una rielaborazione poetica e divulgativa. Consigliabile, problematico-poetico, per battiti.
“La regina Carlotta. Una storia di Bridgerton” (Netflix, 04.05)
La regina Carlotta, interpretata dall’attrice shakespeariana Golda Rosheuvel, nelle prime due stagioni di “Bridgerton” (dal 2020), seppure sia un personaggio di “secondo piano”, ha di certo lasciato il segno negli spettatori. Forse è per questo che la geniale showrunner Shonda Rhimes – sue sono le serie “Grey’s Anatomy” (dal 2005) e “Scandal” (2012-18) – ha puntato su uno spin-off dedicato proprio alla sovrana, componendo un racconto che fonde la cornice della Storia, con pagine di fantasia di matrice romantica.
La storia. Inghilterra XVIII secolo, Carlotta (India Amarteifio) è una nobile di origini tedesche che viene data in sposa al giovane sovrano Giorgio III (Corey Mylchreest). I due, non essendosi mai incontrati prima delle nozze, abitano una certa paura di perdere la propria libertà in un matrimonio infelice. In verità, tra i due emerge subito una grande sintonia, insidiata però da non pochi ostacoli: i rigidi protocolli di corte, le ingerenze della casa reale – su tutti la madre di Giorgio, Augusta (Michelle Fairley) – così come la salute precaria del sovrano, tenuta segreta per non allarmare la popolazione…
Alla base di “Bridgerton” ci sono i romanzi della scrittrice statunitense Julia Quinn, ma non pochi sono i riferimenti allo sfondo sociale, culturale e sentimentale dell’universo letterario di Jane Austen. Una Austen a ben vedere addizionata di contemporaneità: nelle musiche, nei dialoghi e nelle dinamiche amorose (con una forte componente passionale); attenzione, inoltre, all’indipendenza della donna e ai temi dell’inclusione, tra sguardi multiculturali e storie Lgbtqia+, in un’ottica politically correct.
Nella miniserie “La regina Carlotta” il racconto funziona e si muove agevolmente soprattutto nel descrivere il legame tra Carlotta e Giorgio, la loro crescita come coppia. La parte che colpisce è la commistione tra linea romance e il tema della disabilità mentale, declinata con attenzione e dolcezza. A funzionare, inoltre, sono i quadri paralleli con i personaggi “coevi” al racconto di “Bridgerton”: ossia il rapporto di amicizia e solidarietà tra Lady Danbury (Adjoa Andoh), Lady Violet Bridgerton (Ruth Gemmell) e la stessa sovrana Carlotta (Rosheuvel). Per il resto, la storia procede spedita alternando commedia sentimentale e raccordi drammatici, stemperati da un fuoco d’artificio di colori, costumi, ambientazioni e musiche. In determinati passaggi il racconto sembra tuttavia perdere agilità e spessore per snodi sovraccarichi o persino gratuiti che ne riducono smalto ed eleganza. Consigliabile, problematica.