Nei giorni scorsi si sono verificati a Milano una serie di fatti di cronaca che hanno fatto pensare a una città segnata dal crimine e dal disagio sociale. Una piccola nata morta abbandonata in un cassonetto; il piccolo Enea lasciato nella “Culla per la vita” alla clinica Mangiagalli; una donna violentata all’interno della Stazione Centrale, un’altra stuprata in un hotel del centro; rissa tra giovani a colpi di spranghe in piazza Morbegno. E poi baby gang e microcriminalità in azione in alcuni quartieri della periferia; tanti senzatetto che vivono per strada…
Qual è il volto della città? Quello – tradizionalmente narrato – della laboriosità, della creatività, della generosità e della buona amministrazione, oppure quello del malessere, del sopruso o dell’indigenza? Ne parliamo con Piero Colaprico, giornalista (firma conosciuta de la Repubblica di Milano), scrittore (fra i suoi libri Duomo Connection, Capire tangentopoli, Mala storie. Il giallo e il nero della vita metropolitana), che da tanti anni segue la cronaca nera e giudiziaria del capoluogo lombardo.
Da molti anni lei segue la “nera” milanese: come vede questa città sotto il profilo della sicurezza e della vivibilità?
Qualcosa in questi ultimi mesi sta cambiando. Dopo la pandemia, mi sembra di leggere alcuni segnali nuovi e preoccupanti. Questa è la città che ha il record dei costi degli appartamenti, visto che dei dieci quartieri più “cari” d’Italia ben otto si trovano intorno al Duomo. Ed è la città dove il lavoro ancora si trova. Ma abbiamo sia alcuni isolati e caseggiati dei quartieri più lontani dal centro sia la zona della Centrale che sono sempre Milano, eppure sembrano pianeti a se stanti. Qui si è andato concentrando il disagio che nasce dalle forti diseguaglianze, qui serpeggiano una rabbia feroce e una disperazione disarmante. Sento dire che la ricetta è “più controlli”, o “più agenti”. Non sono d’accordo, per me la ricetta è più umanità e più intelligenza da parte di tutti, anche e soprattutto della politica nazionale.
In che senso?
Tamponare situazioni senza tentare di risolverle non serve. La risposta affidata alla repressione e ai controlli è un modo della politica di lavarsi le mani di fronte ad alcuni temi cruciali. Che cosa fare con la povertà, che cosa fare con l’abbandono della scuola da parte dei più giovani, cosa fare con l’immigrazione che da decenni non è un fenomeno, ma una costante. A me sembra che la prefettura di Milano faccia già abbastanza per lo meno dai tempi dell’Expo, forse è il Parlamento che deve trovare leggi migliori, se ne è capace. Da decenni osservo il lavoro quotidiano di polizia e carabinieri, anche il Palazzo di Giustizia mi pare si sia risvegliato. La città, nonostante quello che si sente, è vivibile. Però alcune questioni serie non si risolvono Comune per Comune, ma a livello nazionale. Mi permetto di osservare che a Milano ci sono stati in un anno oltre mille interventi delle pattuglie per evitare che persone “fuori di testa” facessero o si facessero del male. Si può mettere mano al tema di come coniugare sicurezza, psichiatria e rispetto di chi è malato? Non lo fa nessuno, in Parlamento, e si lascia il cerino che brucia nelle mani dei sindaci.
Ma, tornando ai fatti di cronaca, che cosa l’ha colpita?
I bambini abbandonati, e soprattutto la bimba nata morta e abbandonata nel cassonetto. Piccoli esseri che ci parlano di donne senza aiuti, di famiglie assenti, di quel mix di povertà e ignoranza che, non raramente, diventa per i peggiori di noi un terreno di conquista e sopraffazione. Il crimine maggiore – intendendo mafie, grosse rapine, traffico di stupefacenti – viene falcidiato da arresti e inchieste. Viceversa sulla strada, nelle notti, si muovono fantasmi oscuri e pericolosi, gente che non pianifica le aggressioni, ma che campa di espedienti e di quello che può arraffare. Quindi, l’analisi porta a una tragica impressione. La barca di Milano va, ma mentre un tempo si cercava di remare tutti in una stessa direzione, adesso mi pare che la città abbia troppe diversità al suo interno e non esita a buttare giù chi non ce la fa a stare al passo veloce. Spero sia solo un’impressione, non una diagnosi.
È innegabile che nelle metropoli moderne si affianchino vite tranquille e laboriose a esistenze ai margini, fra indigenza, microcriminalità, malaffare. Rispetto alle grandi città italiane ed europee, Milano non sembra fare eccezione. Non trova?
Assolutamente è così, anzi, a dire il vero, la massiccia e crescente presenza di turisti e le folle enormi che sciamano nelle strade dei locali sono paradossalmente indicatori di una percezione di “non pericolo”, sempre che si giri alla larga dalla Centrale e altre zone a rischio rapina. Non esiste la paura di uscire, la prudenza minima necessaria per muoversi mi sembra diffusa, i cittadini chiamano il 112, non sono tutti conigli in fuga. C’è un volontariato encomiabile. Ma nonostante questo, esiste un allarme crescente e non va sottovalutato.
Occorre riconoscere che il capoluogo lombardo è ancora culla del lavoro, dell’associazionismo, del volontariato. Il tessuto sociale mediamente sembra tenere. Vi si riscontra una presenza diffusa e attiva del mondo cattolico ambrosiano. Eppure le stesse parrocchie e la Caritas raccontano di una società che va frammentandosi, con sacche di povertà e solitudini crescenti, periferie in sofferenza… Sono notevoli anche i flussi immigratori, non sempre integrati. Quale il volto – o i volti – della Milano del nuovo secolo?
Chi parla con le parrocchie, conosce quante bollette vengono pagate dai preti. E meno male! Milano ha in effetti una grande, generosa e vitale rete di organizzazioni no profit e anche il Comune non ha tagliato i fondi di aiuto alle fasce più svantaggiate della cittadinanza. Ma non basta più aprire il portafoglio. Questo è un argomento che destra e sinistra sembrano non comprendere più sino in fondo. I soldi sono importanti, ma Milano ha bisogno di ritrovare un po’ di speranza e un po’ di fiducia. Sentimenti che non arrivano dagli investimenti immobiliari, dalle Olimpiadi, dalle architetture mirabolanti. Arrivano invece dall’impegno costante di varie persone, e in primo luogo degli amministratori pubblici. Ma bisogna faticare, e molto, per tenere insieme le cose, per fare in modo che dalle parrocchie all’Arcivescovado, dai municipi a Palazzo Marino non ci si volti dall’altra parte. Infatti, mi permetto di aggiungere un fattore importante. Quando la cronaca registra fatti gravi, si aprono polemiche sul momento, poi resta un grande e profondo silenzio. Silenzio sulle violenze, silenzio sui bambini abbandonati. Trovo asfissiante il silenzio sulle centinaia, se non migliaia di migranti che restano a dormire e a vivere in strada. In questo silenzio si confonde chi ha bisogno di protezione immediata e chi invece dovrebbe essere messo in condizione di non nuocere.
Istruzione, lavoro, divertimento, sport: guardando al futuro, Milano cosa offre, secondo lei, alle nuove generazioni?
Se uno ha i genitori che lo mantengono, a Milano fa una bellissima vita. Ma se deve studiare e lavorare, come accadeva negli anni Settanta del secolo scorso, rischia di scoppiare, perché si trova tra affitti proibitivi e salari scarsi. Cioè, la tenaglia dell’economia si è stretta sul ceto medio, ma Milano riesce ancora a dare un futuro a chi ha un sogno e la volontà di portarlo a compimento. Chi ha soldi, li dà a chi ha idee. Questa ruota non s’è inceppata. Ci possono però salire sempre meno giovani, l’età del precariato è aumentata e quando guardo i giovanissimi figli dei migranti penso sempre: “Chissà quanta intelligenza stiamo sprecando perché non ci sono occasioni e attenzioni”. Forse c’è da lamentarsi meno che in altre città, ma Milano pare a un bivio e non può più permettersi di sonnecchiare o di campare d’ipocrisia e pacche sulle spalle. O riesce a far sentire la sua voce, o il rischio di spaccarsi ancor di più non solo esiste, ma diventa una pessima certezza.