È iniziato l’iter parlamentare della proposta di legge che intende dichiarare la maternità surrogata un reato universale. I vescovi italiani, tramite il segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, hanno definito “inaccettabile” la pratica dell’utero in affitto, in primo luogo perché rappresenta una mercificazione della donna e del nascituro, come ha più volte denunciato anche Papa Francesco. Ne abbiamo parlato con Monica Ricci Sargentini, giornalista del Corriere della Sera, impegnata da tempo, con la rete Women’s Declaration International delle femministe radicali, nella battaglia contro tale pratica. “È il contrario dell’autodeterminazione”, spiega al Sir: “Queste donne sono vite in prestito”.
Come giudica il dibattito attuale sulla legge?
Credo che questa legge sia l’unica cosa che si può fare per fermare il commercio di bambini.
La pratica della maternità surrogata è infatti una compravendita, per accorgersene basta consultare i cataloghi delle agenzie. In Italia la pratica dell’utero in affitto è vietata, ma tale divieto viene aggirato perché le coppie – sia omosessuali sia, in prevalenza, eterosessuali – vanno all’estero e tornano con il bambino in braccio. A quel punto, ci si trova di fronte ad una creatura da tutelare e si pretende di registrarla all’anagrafe a nome di entrambi i genitori ma questo rappresenta un falso in atto pubblico e, recentemente, anche la Corte di Cassazione a sezioni unite ha indicato la via dell’adozione in casi particolari per il genitore non biologico.
Quella attualmente in discussione è una legge che noi femministe radicali abbiamo sempre voluto,
tanto che è stata la nostra rete a chiedere all’Onu di rendere la maternità surrogata un reato universale, esattamente come accade per le mutilazioni femminili.
Non riesco a capire, quindi, questa levata di scudi generale:
anche a sinistra ci sono tanti esponenti politici contrari all’utero in affitto, la verità è sotto gli occhi di tutti. A meno che non vogliamo credere alla propaganda di alcune gocce nel mare che rappresentano, però, solo casi isolati e vengono presentate come la regola, invece che come eccezione.
Cosa significa, per un bambino, nascere da una madre surrogata?
Quando un bambino nasce da una madre, surrogata o no, conosce solo quella madre, il contatto con lei è insostituibile. Nel caso dell’utero in affitto, invece, questo contatto viene negato e ciò rappresenta un trauma per la madre e per il bambino. Ci sono solo i cosiddetti genitori intenzionali e ciò che avviene è uno strappo alla nascita. Non lo facciamo neanche con i nostri cuccioli di animali, che lasciamo con le loro madri per i primi due o tre mesi di vita, perché dovremmo farlo con degli esseri umani? Il contatto con la propria mamma è il primo diritto di un nascituro, a meno che non si voglia negare ad esso lo statuto di essere umano. È un diritto che viene prima di ogni trascrizione.
Queste donne sono vite in prestito, altro che autodeterminazione o “maternità solidale”: danno via tutti i loro diritti, anche il loro corpo è al servizio di chi le paga.
Con la pratica dell’utero in affitto, quindi, si infliggono traumi a tavolino?
In base ai contratti stipulati negli Stati Uniti, la madre surrogata – che viene chiamata, con un termine a mio avviso insultante, “portatrice” – non è più padrona del proprio corpo. Su richiesta dei genitori committenti e del loro cosiddetto “progetto genitoriale” è costretta ad abortire, se qualcosa va male o ci sono malattie non previste e non gradite.
Ho intervistato molte donne che hanno scelto di fare una gravidanza per altri e ho potuto verificare che non sono tutelate: vengono ingannate, viene detto loro che fanno qualcosa di miracoloso, di importante. Naturalmente queste donne lo fanno per i soldi, ma credono di compiere anche un gesto altruistico. Non vengono messe al corrente dei rischi che corrono.
Una di loro, ad esempio, Kelly Martinez, alla terza gravidanza surrogata è andata in gestosi e ha chiamato l’agenzia per chiedere se rischiava di morire. Sono donne ingenue, che vanno incontro anche ad esiti fatali, come una madre surrogata morta nell’Idaho lasciando un marito e tre figli. Spesso, infatti, le madri surrogate sono madri surrogate seriali: da una parte sono spinte a rifarlo ancora, perché se l’hai già fatto hai più probabilità di successo e sei pagata di più, dall’altra invece più lo fai e più tale pratica diventa pericolosa, ma la donna sceglie di farlo comunque perché sente il bisogno di essere “riempita”, di colmare il vuoto lasciato in lei dalla prima gestazione per altri (Gpa). A seconda delle tipologie di contratto, inoltre, ad alcune donne viene dato un supporto psicologico per non affezionarsi al feto e viene loro vietato perfino di toccarsi la pancia. I cinesi, ad esempio, vengono negli Usa per fare anche due maternità surrogate contemporaneamente, finalizzate ad avere due maschi “à la carte” che poi diventeranno cittadini statunitensi, drogando così ulteriormente un mercato, come quello dell’utero in affitto, davvero molto fiorente, con un giro di miliardi di dollari.
Di fronte alla tratta, alla violenza sulle donne, agli stupri e agli abusi ci si indigna. Qual è la reazione delle donne ad una pratica, come la Gpa, altrettanto lesiva della loro dignità?
La maggioranza degli italiani è assolutamente contraria alla maternità surrogata, anche se un certo pensiero “mainstream” può indurre a credere il contrario. In genere, infatti, la pratica dell’utero in affitto viene “abbellita” mediaticamente per nasconderne la sostanza, che è un trauma inflitto ad una donna che viene pagata e ad un bambino che viene trattato come un prodotto. Per quanto mi riguarda, non smetterò mai di combattere questa battaglia. Le donne sanno mettersi in rete: bisogna continuare a stanare e contestare con ogni mezzo i meccanismi di mistificazione o di propaganda.