“E’ stato come trovarsi davanti ad un terremoto e ad un regalo inatteso, che non hai chiesto, ma che poi ti piace più degli altri. Una bellezza inspiegabile a parole ma che ti illumina la vita. Non sapevamo che Giorgio avesse la sindrome di Down, ed io sono stata molto felice di non averlo saputo prima della sua nascita perché così l’ho conosciuto e accolto subito come figlio, al di là della sua condizione genetica”. Anna Chiara Gambini racconta al Sir con lucidità, passione, e senza filtri, la sua esperienza di mamma di Giorgio Maria, un bimbo con sindrome di Down, senza nasconderne la fatica ma valorizzandone la bellezza. Anna Chiara è la moglie di Gigi De Palo, che proprio nei giorni scorsi ha concluso il suo secondo e ultimo mandato di presidente del Forum delle associazioni familiari: hanno cinque figli dai 17 ai 5 anni. L’ultimo, Giorgio Maria, è nato cinque anni fa da un cesareo d’urgenza, “molto complicato – spiega la mamma -. Abbiamo entrambi rischiato di non farcela”.
Come hai accolto la sua nascita?
Quando me lo hanno messo in braccio per pochi minuti perché ero molto provata, non mi sono accorta di nulla. L’ho sbaciucchiato e accolto, innamorandomi subito di lui. Ero molto stanca ma felice. Successivamente, dopo essere stata informata della sua condizione, ho capito che quei pochi minuti di abbraccio subito dopo il parto per me sono stati salvifici e mi hanno dato tutta l’energia per amare mio figlio così com’era. A Gigi e a me capitava di incontrare molte coppie con bambini Down, tanto che durante la gravidanza ci scherzavamo sopra: “Vuoi vedere che questa volta capita anche a noi?”.
Come lo hai saputo?
Quando mi sono un po’ ripresa Gigi è venuto in camera mi ha detto: “Amore, alla fine è andata proprio così, lo sai?” (sorride). Per la nostra coppia quel momento è stato in assoluto uno dei più belli, questa frase la più romantica e la più emblematica del nostro rapporto:
guardandoci negli occhi ci siamo sentiti davvero forti, in totale sintonia.
Ho replicato: “Eh vabbè…”. Una risposta che potrebbe sembrare laconica, ma che dice la pace, la dolcezza e la complicità allo stato puro che ho provato. Questo figlio già lo amavo con tutta me stessa.
Quale è stata la reazione dei fratelli?
I più grandi sono stati informati dal papà in modo diretto. Non hanno mostrato remore ed erano ansiosi che io tornassi a casa con il fratellino. Gabriele, che allora aveva cinque anni, cercava di capire che cosa fosse la sindrome di Down e ad ogni persona con lineamenti orientali che incontravamo mi chiedeva se anche questa fosse come il fratellino… (ride). E’ stato informato gradualmente e ha capito da subito che aveva un fratellino di cui occuparsi. Ancora oggi è quello che ha il rapporto più simbiotico con lui. Litigano da morire, a volte li devo dividere ma è bene sia così perché significa che hanno un rapporto paritario, che Gabriele percepisce Giorgio uguale a lui.
Che cosa è cambiato nella vostra vita quotidiana?
Giorgio è arrivato come un terremoto, è trascinante e noi non potremmo fare a meno di lui, ma la fatica – anche se bella – che comporta questa condizione non va sottovalutata.
Dietro il nostro entusiasmo, la nostra gratitudine, il nostro stupore, la grazia di vedere oltre la mera diversità, c’è un carico di fatica fisica ed emotiva che lavora di soppiatto e a volte ti sfianca.
È importante dirlo: un figlio speciale cambia la quotidianità, gli impegni si diversificano perché lui richiede più attenzioni che generano inevitabilmente una disparità nei confronti degli altri, abituati a pensare non in termini di equità ma di uguaglianza. E questo crea tensioni anche nei più grandi perché con un fratellino disabile non si può dividere il tutto in parti uguali ma si sperimenta il concetto di equità, ossia il fatto che ognuno debba ricevere in funzione di quello di cui ha bisogno.
Ma questo può anche avere una valenza educativa…
Certo, perché un figlio disabile in famiglia slatentizza problematiche che alla fine la vita presenta a tutti. Con la disuguaglianza tutti, prima o poi, ci dobbiamo scontrare; farlo in famiglia spero possa portare, una volta adulti, ad avere empatia e capacità di immedesimazione.
Ti sei mai sentita dire che bambini così è meglio non farli nascere? Se tu avessi saputo prima che cosa avresti fatto?
Sì mi è capitato. Domande che mi pongono mamme che probabilmente si portano dentro un dolore, o perché hanno rinunciato o perché in solitudine hanno preso decisioni molto difficili. A volte me lo chiedono persone che si interrogano se proseguire o meno la gravidanza e non sanno che fare. Confrontandosi con noi, grazie a Giorgio, quattro o cinque suoi ”fratellini” sono venuti alla luce. Forse qualcuno si è detto:
“Se ce la fa Giorgio, potrebbe farcela anche il mio, perché devo rinunciare?”.
Quanto a me, sono molto felice di rispondere che non lo sapevo. Mi serve per non indossare l’abito dell’eroina e per non rischiare di esibire il mio sì alla vita di Giorgio come un trofeo.
E’ l’amore, un amore appassionante la molla che spinge a dire sì, e non solo una volta, ma ogni giorno.
Ho conosciuto mamme con figli paraplegici, che parlano solo con gli occhi, ma in tutte queste situazioni c’è un minimo comune denominatore: di un figlio si accoglie e si ama tutto. Posso anzi dire che i genitori di figli disabili diventano degli intenditori della vita di cui imparano a cogliere le minime sfumature: un battito di palpebre che diventa un sorriso, un girare gli occhi una parola. Io credo che l’aborto provochi nella donna che lo compie uno strappo, una tragedia che, magari non percepita al momento, nel futuro si farà sentire. Ma perché in questa decisione così terribile, motivata dal fatto di non volere che il figlio soffra, le donne vengono spesso lasciate sole? Ma chi dice che la risposta violenta sia quella giusta?
Perché per la sorte di molti bambini ci indigniamo, come è giusto che sia, e per questi no?
Vi è mai capitato di subire forme di esclusione o discriminazione?
Non in modo esplicito, tranne alcuni medici che ci hanno fatto percepire tra le righe che non valeva la pena perdere tempo… Mi rendo conto che certe cose sono difficili da dire e non tutti hanno la sensibilità necessaria. Oppure, in altri casi, si è trattato di ignoranza. Le più faticose e le più insidiose sono però le discriminazioni non esplicite, sottili, subdole, di fronte alle quali è più difficile difendersi. Ma anche le “semplificazioni” non aiutano.
Che intendi dire?
A volte fatico a educare Giorgio perché la gente tende per bontà a semplificare le cose. Se ad una festa bisogna fare la fila per prendere un palloncino, anche lui deve aspettare il suo turno, come gli tutti gli altri. Ora Giorgio è piccolo e carino, suscita tenerezza, molte cose gli vengono concesse e perdonate. Nell’adolescenza diventerà tutto molto più complicato: temo che allora potrà subire rifiuti o discriminazioni. E poi ci sono le discriminazioni di secondo livello…
Ossia?
Il mondo di Giorgio è in via di estinzione.
Sarà difficile accettare di vivere in un mondo in cui le persone come te non sono gradite – al di là dei discorsi di facciata o delle modelle utilizzate negli spot pubblicitari da alcuni marchi – o alle quali non è concesso nascere. Verrà il momento in cui questo verrà percepito da lui come una discriminazione. Se da un lato mi auguro che lo percepisca perché significherebbe che ha una buona capacità cognitiva, dall’altro non vorrei che provasse questo senso di discriminazione nei suoi confronti. Purtroppo non ci si preoccupa di capire quanto le persone con sindrome di Down soffrano nel vedere che altri bambini come loro non vengono messi nelle condizioni di venire al mondo; finiranno inevitabilmente per ritenersi “sbagliati”.
Come immagini, cosa temi e speri per il futuro? State pensando al dopo di noi anche se Giorgio ha quattro fratelli?
Non sapere se un figlio sarà autosufficiente è una preoccupazione. Vedendolo crescere, ogni volta che manifesta un ritardo aumenta inevitabilmente la nostra consapevolezza della sua diversità; il timore che non sia autosufficiente è quindi reale. Ma ad accogliere Giorgio non siamo stati solo Gigi ed io, lo hanno fatto anche i nostri figli e la comunità di amici e persone che ci hanno sostenuto. In questo senso mi considero una privilegiata perché non ho detto di sì alla sua vita da sola, ma con tante persone intorno a me, e i nostri quattro ragazzi sono una grandissima garanzia: per lui ci saranno sempre. Inoltre, il sistema italiano di accoglienza di un figlio con disabilità è molto efficiente a livello di servizio sanitario nazionale e previdenziale. Nel nostro Paese c’è tanto bene e questo va detto.