Se le parole pronunciate corrispondono al nostro pensiero e alle nostre profonde decisioni e non sono solo rumori ripetitivi, dettati dall’ultimo messaggio pubblicitario o da qualche influencer, dobbiamo riflettere proprio sulla parola donna e sul suo significato reale e storico, oggi e non ieri.
Chi è la donna? Perché è donna e non uomo? Vale a dire femmina e non maschio?
Sono interrogativi pungenti cui ognuna (ma anche ognuno) deve poter rispondere per identificare se stessa nella pace e nella gioia. Senza nessuna fluidità che venga ad interporsi e ottenebrare il quotidiano.
Uno psichiatra e psicanalista francese, Racamier, in un suo saggio del 1986, “Il lavoro incerto”, mi ha offerto uno spunto che ho iniziato (e continuo!) a leggere alla luce della Buona novella che Gesù ci ha annunciato.
Ecco lo spunto: maternalità. Con un taglio che però, mi discosta dalle affermazioni proposte nel saggio di cui sopra e si apre a una tonalità ben diversa.
La donna non è tale perché ama in un certo modo piuttosto che in un altro. Non è donna perché è o non è madre. La donna è tale perché vive nel suo profondo, come dono ricevuto dall’Altissimo, la capacità di sentire l’altro, proprio come sente se stessa.
Edith Stein la chiamava empatia che, considerata attentamente, si palesa come amore oblativo autenticamente aperto all’altro. Ognuno e ognuna, sia o non sia genitore, è chiamato e chiamata a muovere questo passo di grande maturazione psicologica.
Da qui scaturisce la cura per la vulnerabilità e ogni bisogno altrui.
Questo significa maternalità: la cura di una donna verso l’altra, distinta dalla maternità che è innata nella donna.
In concreto come si modula?
Le nostre posture psico-affettive devono giocarsi ed esprimersi nella loro più piena peculiarità.
Diventa un programma di vita dedicata, donata, perché si preoccupa delle persone con cui si condivide il vissuto quotidiano.
Si mette in atto, nel concreto, un principio cui aderiamo troppo spesso in astratto e che troviamo arduo riconoscere nel concreto: badare ai bisogni altrui prima dei nostri.
Non è solo slancio dinnanzi alla sofferenza o alla carenza altrui che ci balza evidente in questo momento di dura guerra o di morte di innocenti in mare, è uno slancio che si radica e produce nel quotidiano gesti, opzioni che lo Spirito ci suggerisce e sostiene, perché malgrado il dono della maternalità sia riconosciuto … ahimé …precipitiamo nel rivolgere lo sguardo a noi. Stesse e …stessi.
Ci si spende per il benessere altrui in una maternalità che diventa sempre più trasparente e ricca di genitorialità perché consenta all’altro e all’altra di vivere un’esistenza colma di amore e degna di essere vissuta in comunione.
Se la maternalità, almeno tenta… nel senso che rischia, magari temendo qualche fallimento e accusandolo con dispiacere, appunto se tenta questo percorso la donna sperimenta la gioia della cura altrui.
Gioia che zampilla e inonda tutti.
Francesco, nell’omelia del 21 maggio 2018, celebrando per la prima volta la messa nella memoria della Beata Vergine Maria Madre della Chiesa, ha toccato questo fondo e, con semplicità, fatto comprendere, commentando il Vangelo che presentava Maria ai piedi della Croce:
I padri della Chiesa hanno capito bene questo e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre, dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale.
Donna quindi in totale maternalità gratuita, spesa nella storia per tutti.