Afferrate per i capelli e colpite con schiaffi, pugni, spinte, oppure trascinate per i corridoi. Minacciate, insultate, umiliate. Sono alcuni degli abusi e dei maltrattamenti ai quali sarebbero state sottoposte 25 donne, pazienti psichiatriche dell’ex Istituto Ortofrenico di pertinenza della struttura sociosanitaria-riabilitativa “Opera Don Uva” di Foggia. Ad agire sarebbero stati una trentina tra infermieri, ausiliari e operatori sociosanitari. Questa mattina, a seguito delle indagini dei carabinieri, sette sono stati arrestati, otto si trovano agli arresti domiciliari, gli altri sono stati raggiunti da misure cautelari (divieto di dimora e di avvicinamento alle vittime). Ne parliamo con Giovanni Paolo Ramonda, responsabile dell’ Associazione comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23), e Luigi Vittorio Berliri, presidente di Casa Al Plurale, coordinamento delle case-famiglia di Roma, una sessantina di realtà che accolgono persone fragili, tra cui anche persone con disabilità mentali.
Di “situazioni assurde, inconcepibili perché la dignità di ogni persona richiede rispetto e accoglienza”, parla Giovanni Paolo Ramonda.“Pensare che persone con fragilità fisica o mentale, anziché trovare sostegno diventino vittime di abusi è agghiacciante. Io penso però – l’analisi di Ramonda – che la caratteristica ‘totalizzante’ di alcune strutture sia un problema, mentre
una rete di relazioni sul territorio sarebbe un efficace strumento di prevenzione.
No a strutture “chiuse”. Vi sono strutture – probabilmente anche quella in questione – nelle quali gli ospiti vivono totalmente isolati, quasi reclusi. Sono convinto che allargare la rete di relazioni che queste persone hanno diritto di avere, pur in presenza di sofferenze mentali, possa aiutare a prevenire questo genere di abusi perché un accompagnamento ‘comunitario’ svolgerebbe una sorta di controllo reciproco”. Ramonda racconta che nella sua struttura residenziale, durante il giorno gli ospiti frequentano una cooperativa sociale al cui interno svolgono diverse attività e il sabato le Acli organizzano il gioco delle carte o il gioco delle bocce.
Un altro aspetto cruciale è il numero: “Con un numero elevato di ospiti – nella Rsa di Foggia si parla almeno di 25 pazienti – diventa molto difficile per gli operatori seguirli. Non dimentichiamo che chi ha sofferenze mentali può attuare comportamenti provocatori non sempre facili da gestire. Meglio la casa famiglia che può accogliere al massimo sei persone per consentire un’accoglienza più adeguata e personalizzata”. Per Ramonda occorre far sì che “ogni persona non sia solo seguita h24 dal punto di vista assistenziale all’interno di una Rsa, ma abbia relazioni anche con il mondo esterno per mettere in campo una sorta di controllo reciproco. Come l’insegnante può cogliere in classe segnali di malessere in un alunno che vive in una famiglia disfunzionale o violenta, allo stesso modo l’operatore della cooperativa esterna è in grado di capire in quali condizioni arriva l’ospite della struttura, se c’è qualcosa che non va”. “Oltre che scandalizzarci – prosegue -, dobbiamo attuare percorsi di prevenzione attraverso una rete capillare sul territorio, come sosteneva il nostro Fondatore e come abbiamo sempre fatto”.
Si può pensare anche ad un burnout degli operatori? “Certo! Io ho insegnato per molti anni pedagogia alla scuola educatori per preparare figure che sarebbero andate a lavorare in case famiglia e comunità alloggio. In molti casi dopo alcuni anni hanno cambiato lavoro perché non reggevano l’impatto con questo tipo di impegno. In queste strutture di assistenza il rischio burn out è molto alto. La società delega a queste realtà – come un tempo si delegava ai manicomi – l’assistenza tout court delle persone con problemi psichiatrici. Occorre invece uno stretto collegamento con i servizi sociali e sanitari del territorio perché
solo un’efficace rete territoriale può gestire situazioni complesse come queste”.
“Nel cuore dell’uomo abitano il bianco e il nero. Bisogna saperci fare i conti perché laddove c’è un piccolo spazio in cui il nero può prevalere si rischia di fare danni enormi, soprattutto in un contesto di fragilità come questo”, afferma Luigi Vittorio Berliri, secondo il quale “questo episodio – come molti altri simili – ingiustificabile da ogni punto di vista conferma quanto sia importante
fare prevenzione lavorando seriamente sulla formazione e sulla supervisione degli operatori.
Per supervisione – spiega – intendo uno spazio di verifica dove gli addetti alla cura possano fare i conti con la propria rabbia, le proprie emozioni e frustrazioni, anche per decidere eventualmente di allontanarsi. Ma devono anche essere allontanati se non sono in grado di fare questo mestiere, delicatissimo quanto quello di un cardiochirurgo perché anche qui si va diretti al cuore dell’uomo. Un operatore che si prende cura di persone fragili tocca la loro anima e deve farlo con tutta l’accortezza, la competenza e la delicatezza del caso, altrimenti rischia di provocare danni irreparabili”. Al tempo stesso, sottolinea Berliri, “in questi ambiti di fragilità viene richiesto un lavoro strabiliante a fronte di un riconoscimento sociale ed economico inadeguato”. Occorre inoltre “lavorare sulla selezione del personale e sulla sua formazione che deve essere continua: da quello che siamo discende quello che facciamo. In questo scenario, l’avere cura di sé non è solo un fatto solo personale, ma un fatto sociale; se si svolge un lavoro di cura il prendersi cura di se stessi diventa un dovere”. Per questo, da vent’anni tutti gli operatori della sua casa famiglia una volta al mese si incontrano in supervisione con uno psicoterapeuta: “costa ma è un investimento”. Inoltre il gruppo deve essere “ben motivato e coeso perché
sarà il gruppo stesso ad espellere le mele marce
evitando che ne facciano marcire altre come avvenuto nella Rsa di Foggia dove, a quanto si apprende dalla cronaca, i numeri impressionanti parlano di tutto un sistema marcio”.