“Se non si scioglieranno i nodi delle cause, la povertà e la disuguaglianza resteranno un destino ineluttabile per troppe persone nel nostro Paese”. Sul Reddito di cittadinanza “stiamo lavorando ad un pacchetto di proposte su cui siamo disponibili a dialogare con il governo. Sarà pronto nelle prossime settimane”. A parlare al Sir è Nunzia De Capite, sociologa dell’ufficio politiche sociali di Caritas italiana, facendo il punto sulla situazione della povertà in Italia e sul futuro del dibattuto Reddito di cittadinanza (RdC). Il governo ha infatti stabilito nella legge di bilancio misure transitorie per il 2023 e una riforma complessiva nel 2024. Secondo De Capite l’idea della separazione delle misure – una per il supporto alle persone in povertà e una mirata alle persone disoccupate che potrebbero essere inserite nel mercato del lavoro – “è buona e permetterebbe di superare la fondamentale criticità del RdC: conseguire con un unico strumento due obiettivi non necessariamente conciliabili, contrasto alla povertà e inserimento lavorativo. Il problema sarà capire come tutto questo verrà fatto”. Ecco alcuni suggerimenti pratici, anche sulla base di un recente rapporto sulle politiche contro la povertà pubblicato da Caritas italiana. Secondo il report soltanto il 44% dei poveri assoluti ha finora percepito il Reddito di cittadinanza (per Banca d’Italia il 51%). Caritas italiana chiede di intervenire su tre dimensioni: i criteri di accesso; irrobustire i percorsi di inclusione sociale; orientare il sistema dei percorsi di inclusione lavorativa, rendendo conveniente lavorare o accettare nuove occasioni di lavoro per chi è occupabile, con interventi adatti per chi non è temporaneamente occupabile.
Oxfam nel suo ultimo rapporto ha ricordato che le disuguaglianze in Italia sono aumentate, come anche la povertà assoluta. Cosa non funziona e cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?
Qui entra in gioco il tema delle disuguaglianze che affligge il nostro Paese da tempo: disuguaglianze di reddito, di ricchezza, disparità di condizioni di lavoro e di trattamento economico e di tutele. In una situazione in cui i redditi familiari sono oggi più bassi di oltre il 10% rispetto al 2006 e il lavoro si è precarizzato (riduzione degli orari di lavoro, aumento dei contratti a tempo determinato, frammentarietà lavorativa, persistenza delle basse retribuzioni, lavoratori poveri), interventi di tipo “redistributivo”, come il Reddito di cittadinanza, possono tutt’al più riequilibrare a valle il divario fra le disponibilità economiche delle persone attraverso interventi di erogazione economica. Ma, oltre ad esso, occorre pretendere che a livello centrale si mettano in campo anche interventi “predistributivi”, in grado cioè di agire a monte sui processi di creazione dei divari di reddito e di ricchezza fra le persone (regole del mercato del lavoro, tassazione, fisco, istruzione, salario minimo, ecc.) Se non si scioglieranno i nodi delle cause, la povertà e la disuguaglianza resteranno un destino ineluttabile per troppe persone nel nostro Paese.
Il governo sostiene che il RdC è fallito nella lotta alla povertà e annuncia di voler cambiare il modello, anche favorendo l’inclusione lavorativa. Ma se il lavoro in alcune zone depresse non c’è come si fa?
Sicuramente il RdC ha procurato un innegabile immediato sollievo economico a moltissime famiglie in difficoltà, soprattutto nella fase dell’emergenza Covid: l’Istat e l’Inps hanno calcolato che senza il RdC sarebbero cadute in povertà oltre un milione di persone in più. Ma sia il contrasto alla povertà che l’inserimento lavorativo sono processi lunghi che richiedono tempo. Inoltre, se consideriamo coloro che vengono orientati ai Centri per l’impiego perché considerati “occupabili”, il profilo di costoro è problematico (basso grado di istruzione, lontani dal mercato del lavoro, esperienze lavorative pregresse frammentate e di breve durata, una generale demotivazione e disorientamento rispetto a quale lavoro desiderare e come chiederlo). Di conseguenza occorrono interventi adeguati e lunghi sia dal punto di vista sociale, sia sul fronte lavorativo.
Finora si è sempre solo ragionato sull’offerta di lavoro, ovvero sulle competenze delle persone, trascurando invece la domanda di lavoro delle imprese, del settore pubblico e di altri soggetti privati. È tempo di includere nel ragionamento sull’inserimento lavorativo anche questo altro fondamentale tassello.
Il governo ha annunciato una riforma del RdC da realizzare nel 2024. Come vi sembrano le ipotesi avanzate nel dibattito pubblico?
L’idea di una riforma può essere valutata positivamente perché vuol dire che si dedicherà gran parte del 2023 a programmarla.
Ci auguriamo però che si tenga conto di quello che già l’esperienza sul RdC ci ha insegnato in questi tre anni e che si dia spazio al confronto e al dialogo
con tutti coloro che sui territori con questa misura lavorano quotidianamente (assistenti sociali, funzionari dei comuni, operatori dei Centri per l’impiego, ecc.). La direzione in cui governo sembrerebbe voler andare è quella della separazione delle misure: una solo per il supporto alle persone in povertà e una mirata alle persone disoccupate che potrebbero essere inserite nel mercato del lavoro e che hanno bisogno di un sostegno economico temporaneo. In 8 Paesi europei (Austria, Finlandia, Francia, Estonia, Grecia, Portogallo, Svezia e Spagna) esiste questa suddivisione fra reddito minimo e assegno sociale per il reinserimento lavorativo dei disoccupati.
L’idea è buona e permetterebbe di superare la fondamentale criticità del RdC: conseguire con un unico strumento due obiettivi non necessariamente conciliabili, contrasto alla povertà e inserimento lavorativo. Il problema sarà capire come tutto questo verrà fatto.
La legge di bilancio prevede una serie di interventi transitori sul RdC per il 2023, come li valutate?
La decisione di limitare l’erogazione del RdC a soli sette mesi, fino a luglio 2023, per le persone “occupabili” è molto rischiosa in quanto l’occupabilità viene definita sulla base non di requisiti lavorativi ma familiari (non vivere in nucleo con figli minori, persone con disabilità e over60 anni) e questo metterà in difficoltà molte persone in condizione di grave vulnerabilità che, allo scadere dei sette mesi, non riceveranno più alcun tipo di sussidio solo perché sono single o vivono in coppia senza figli. Un’altra previsione consiste nel rendere vincolante per i percettori di RdC 18-29enni il completamento dell’obbligo scolastico: questa è una novità positiva, vista la condizione esplosiva dei Neet (i giovani che non lavorano né studiano) nel nostro Paese, ma anche in questo caso a patto che si inserisca nel quadro complessivo di interventi per promuovere il benessere della persona con l’aiuto degli assistenti sociali e degli operatori sei servizi territoriali. Non tanto e solo un obbligo, quindi, ma una opportunità e che come tale sia vissuta dalle persone.
Negli ultimi tempi, soprattutto al Sud, i percettori del RdC sono scesi in piazza per chiedere che la misura sia mantenuta. Si rischiano tensioni sociali?
Avendo dichiarato che si passerà a due misure, immaginiamo che il prossimo passo del governo nelle prossime settimane consisterà nel render noti quali saranno i sostegni a disposizione degli 800.000 “occupabili” che da agosto non riceveranno più il RdC e non avranno trovato lavoro. Se così fosse non ci sarebbero da temere tensioni sociali montanti e questo sarebbe un bene perché le persone avrebbero chiaro l’orizzonte davanti a loro. Quando parliamo di contrasto alla povertà dobbiamo ricordare che c’è un limite non travalicabile, che è questo: garantire il diritto a un’esistenza dignitosa per chiunque sia caduto in povertà.
In tutta Europa chiunque chi si trovi in povertà, che sia occupabile o non occupabile, ha diritto a ricevere a un aiuto pubblico. Non è pensabile che l’Italia diventi l’unico Paese privo di tale diritto.
Le politiche attive per trovare lavoro non hanno funzionato ma invece di fare autocritica sul sistema si colpevolizza solo chi lo ha percepito senza averne diritto, come se fossero gli unici responsabili delle criticità, innescando una guerra tra poveri. Politici e media soffiano sul fuoco di queste semplificazioni. Si può fare qualcosa per invertire questa narrazione disfunzionale?
L’assenza di monitoraggi periodici istituzionali con uscite sistematiche, soprattutto sul versante sociale, insieme al difficile accesso a dati disaggregati, non ha giovato alla misura in questi anni. Il terreno della comunicazione è stato colonizzato da inchieste giornalistiche non interessate ai processi né alle cause, ma focalizzate su situazioni singole e dai risvolti aneddotici. Nulla su funzionamenti e risultati, al contrario ci sono state generalizzazioni senza fondamento che hanno alimentato la retorica svilente sul RdC. Un accesso ai dati per attività di monitoraggio e ricerca procurerebbe molti vantaggi.
Ricordiamo, in estrema sintesi, le modifiche al RdC che chiedete?
Si tratta di intervenire su tre dimensioni: i criteri di accesso (diminuzione del numero di anni di residenza richiesti; rimodulazione delle soglie economiche al Nord; scala di equivalenza non discriminatoria verso le famiglie più numerose); i percorsi di inclusione sociale che vanno irrobustiti (assunzione di assistenti sociali per garantire il rapporto di 1 a 5.000; sostegno agli Ambiti Territoriali Sociali dal punto di vista amministrativo e contabile); sul fronte lavoro, orientare il sistema dei percorsi di inclusione lavorativa, rendendo conveniente lavorare o accettare nuove occasioni di lavoro per chi è occupabile (incentivi per i beneficiari che iniziano a lavorare; un sussidio ad hoc per i lavoratori; incentivi transitori al lavoro) e disegnare interventi adatti a chi non è (temporaneamente) occupabile, innanzitutto riconoscendo la quota di utenti non occupabili e quindi predisponendo risposte opportune per loro.
Su questo stiamo lavorando ad un pacchetto di proposte declinabili concretamente su cui siamo disponibili a dialogare con il governo. Sarà pronto nelle prossime settimane.