Sul caro carburanti il governo è intervenuto con un decreto che non ripristina il taglio delle accise ma punta tutto su controlli e trasparenza. L’assunto di partenza è che gli aumenti sarebbero dovuti prevalentemente, se non esclusivamente, a comportamenti speculativi. Sullo sfondo c’è la considerazione, ribadita ancora una volta da Palazzo Chigi, che del taglio avrebbero beneficiato tutti i redditi, anche i più elevati, ma il suo costo per le casse dello Stato (stimato in circa 10 miliardi l’anno) sarebbe stato tale da rendere impossibili le misure adottate con la legge di bilancio a sostegno dei redditi più bassi. La materia è ovviamente al centro del dibattito politico e non solo. C’è chi fa notare come gli ultimi aumenti abbiano una stretta corrispondenza con il peso delle accise tornate in campo. Ma che ci sia qualcosa che non torna, anche e forse soprattutto a livello globale, nei meccanismi di formazione del prezzo dei carburanti, è di un’evidenza palmare.
A valle del problema, in termini di scelte politiche il nodo cruciale è nella valutazione delle conseguenze diversificate che l’aumento dei prezzi determina a seconda delle fasce di reddito. L’inflazione, lo diceva già Einaudi, è la più iniqua delle tasse perché si accanisce particolarmente sui ceti meno abbienti. Con riferimento ai carburanti per i mezzi di trasporto privati, gli economisti della campagna Sbilanciamoci! hanno calcolato sulla base di dati Istat che l’impatto della crescita dei prezzi sul quinto più povero della popolazione è il triplo di quella che si registra sul quinto più ricco. E in altri campi è anche peggio: per energia elettrica, gas e altri combustili, l’impatto è 6,40 volte più elevato, 4 volte e mezzo per i prodotti alimentari.
C’è poi tutto il capitolo della dinamica dei salari, in cui l’Italia rispetto agli Paesi sviluppati vanta – si fa per dire – un record negativo ultradecennale. Un’inflazione giunta ormai all’11,6% (ultimo dato 2022: “siamo a livelli veramente preoccupanti”, ha detto il presidente dell’Istat Blangiardo) sta erodendo pesantemente il potere d’acquisto delle famiglie. Nei primi nove mesi dello scorso anno i salari reali hanno perso il 6,6%. Con oltre la metà dei lavoratori dipendenti in attesa da anni del rinnovo dei rispettivi contratti, la questione richiede urgentemente un tavolo in cui politica e parti sociali trovino una quadra economicamente e socialmente sostenibile.
Certo, le previsioni per l’anno appena iniziato sono meno fosche rispetto alla situazione presente, anche se per l’Italia la stima di un’inflazione al 5,1% è stata giudicata dallo stesso Blangiardo “un po’ ottimistica”. Anche a prescindere dalle molte, imponderabili variabili che potrebbero far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, si tratterebbe comunque di un valore molto elevato, ma l’avvio di una chiara fase discendente sarebbe un segnale di importanza decisiva per orientare le scelte delle autorità monetarie, in Europa e non solo.
Al momento sembra che nessuno abbia la lungimiranza e la forza per andare oltre la mera ripetizione di politiche restrittive a colpi di aumento di tassi d’interesse, che rischiano di provocare una spirale recessiva dannosa almeno quanto l’inflazione, se non di più. Servirebbe uno scatto in avanti, come al tempo della pandemia…