Tutta colpa delle “stelle”. Sembra la beffa che unisce due titoli statunitensi in primo piano che affrontano la cucina e le sue dispersioni, per non dire orrori. Il primo è un film atteso targato Searchlight Pictures che passa alla 17a Festa del Cinema di Roma, “The Menu”, una commedia nera, feroce, che sconfina nel thriller serrato: sembra uno “Squid Game” tra i fornelli! La regia è di Mark Mylod (“Il Trono di Spade”), del cast capofila è Ralph Fiennes nei panni di un glaciale chef che si muove tra disillusione e follia. Su Disney+ la serie “The Bear” ideata da Christopher Storer (“Ramy”), family drama che oscilla tra cucina di tendenza e tradizione statunitense, con incursioni in quella italiana. Uno chef trentenne – la rivelazione Jeremy Allen White – è chiamato a prendere in mano il locale di famiglia e a elaborare la morte del fratello. Racconto vorticoso, psicologico, su vite deragliate in cerca di riparazione. Il punto Cnvf-Sir.
“The Menu” (al cinema, dal 17.11)
Tra i produttori di “The Menu” figura Adam McKay, regista di talento che ha firmato negli ultimi anni commedie sociali dallo humor (ultra)black: “La grande scommessa” (2015), “Vice (2018) e “Don’t Look Up” (2021). Questo perimetra molto la dimensione narrativa di “The Menu”, un copione originale che porta la firma di Will Tracy (la serie Hbo “Succession”) e che vede alla regia Mark Mylod, a capo di alcuni episodi del “Trono di Spade”, come pure di “Succession” e “The Affair”. Il film mette a tema il mondo della cucina rigorista e stellata, che si compone di una liturgia affascinante e insieme claustrofobica. Spazio da raccontare e al contempo da sovvertire.
La storia. Stati Uniti, oggi. Un gruppo scelto di ricchi clienti si imbarca verso un’isola privata dove risiede il ristorante esclusivo Hawthorn, diretto dallo chef Julian Slowik (Ralph Fiennes). Una cena pagata oltre mille dollari che promette di essere memorabile. Quando i clienti, tra cui i trentenni Tyler (Nicholas Hoult) e Margot (Anya Taylor-Joy), mettono piede all’Hawthorn tutto risuona suggestivo e al contempo sinistro: portata dopo portata, emergono le ambiguità dello chef; non mancano poi improvvisi incidenti, persino mortali. Questo attiva un clima di diffuso terrore…
Ridicolizzazione o metafora feroce? Ci si domanda questo al termine della visione del film “The Menu”, un racconto fosco che accosta commedia nera e thriller esistenziale, dove la cucina è un’arena in cui si disputa una lotta senza sconti tra brigata e avventori. Il film mette a nudo, con sfumature grottesche, l’ecosistema di una cucina pluripremiata: ci si domanda quale sia il prezzo del successo, quale il carico di pressioni che gravano sull’uomo e al contempo lo smarrimento di senso cui spesso si va incontro, confondendo carrierismo e valore del cibo.
Nella narrazione, lo chef Julian Slowik incarna l’uomo apparentemente arrivato, ma in verità chiuso nelle sue rigidità, che non riesce a elaborare irrisolti e strappi nel proprio passato, a cominciare dai rapporti sbilanciati in famiglia. Lo chef cova un malessere, una depressione atavica che però deborda in un violento nichilismo senza freni. Tutto è ormai vano per lui, tutto è rovinato. Marcio. Avvia così una spiazzante e folle resa dei conti con chi lo ha ingannato e corrotto. Insomma, uno “Squid Game” sontuoso e macabro.
Il cast gira alla perfezione sulla partitura: dal sempre eccellente Ralph Fiennes, che domina la scena con sguardo glaciale e incendiario, ad Anya Taylor-Joy, anomalia ribelle nella liturgia della cucina di alto profilo. Accanto a loro, efficaci: Nicholas Hoult, Hong Chau, Janet McTeer, John Leguizamo, Judith Light e Paul Adelstein. Al di là del sarcasmo nero, nerissimo, “The Menu” avanza anche un’acuta riflessione sul superamento dei confini nell’esperienza enogastronomica, un’attività professionale che spesso ricerca senso più nella “liturgia” maniacale che nella pietanza impiattata. Un gioco di ruoli e apparenze per chi è disposto ad abitare pericolosamente la vertigine, pur di guadagnare un posto tra le stelle. Film complesso, problematico, per dibattiti.
“The Bear” (Disney+, dal 05.10)
È una delle rivelazioni di questo autunno: la serie FX “The Bear”, proposta dalla piattaforma Disney+. Un dramma esistenziale che esplora crepe familiari e sociali, raccontando il microcosmo di un ristorante di Chicago che si arrabatta per la salvezza. A ideare la serie è Christopher Storer (“Ramy”), che ha incassato già l’approvazione per sviluppare una seconda stagione dopo l’accoglienza positiva del debutto.
La storia. Chicago oggi, Carmen – detto Carmy – Berzatto (Jeremy Allen White) è uno chef trentenne che si è fatto una buona reputazione nell’ambiente. Dopo il suicidio del fratello maggiore, Carmy accetta di occuparsi del locale di famiglia, The Original Beef of Chicagoland, un “diner” che unisce trazione a stelle e strisce, street food e cucina italiana. La situazione cui si trova davanti è però sconfortante: una lunga lista di debiti e una gestione improvvisata da parte del cugino Richie (Ebon Moss-Bachrach), nonché personale recalcitrante a suggerimenti e regole. Ancora, la sorella Natalie (Abby Elliott) lo tallona affinché veda da gruppo di auto-aiuto per elaborare i traumi del passato e soprattutto la morte tragica del fratello.
“The Bear” (8 episodi da circa 30’) è una serie che lascia il segno, per come affronta i temi in campo, ma soprattutto per lo stile visivo-narrativo. La regia è concitata, “sporca”, abile nell’alternare realismo e raccordi onirici, vere e proprie allucinazioni, quelle di Carmy. Tutto corre lungo la linea di confine tra cucina e famiglia, arte culinaria e ricordi di piatti preparati in casa. Una narrazione martellante e disordinata, densa però di pathos, che ricorda non poco il “Whiplash” (2014) di Damine Chazelle, quei quadri visivi lirici e violenti.
Accanto all’alternanza di tormenti e lampi di genio di Carmy, trovano posto nel racconto le vicissitudini personali dei dipendenti del locale, dal cugino Richie alla giovane sous chef Sidney (Ayo Edebiri). A ben vedere, il loro vissuto non viene declinato in maniera lineare, chiara: sono frammenti di esistenze, fatte di cicatrici e pagine di tenerezza. “The Bear” si rivela un puzzle dell’anima che trova (parziale) completezza solo nel finale, dove la cucina smette di essere una trincea per farsi spazio che accoglie, cura e apre al cambiamento. Un luogo che assume più declinazioni e significati, che si accordano anche alle tensioni e sfide emotive cui sono chiamati i personaggi. “The Bear” è una serie livida e luminosa, che non passa inosservata. Complessa, problematica, per dibattiti.