Giù il sipario sulla 79ª Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, con un verdetto da parte della Giuria internazionale, guidata dall’attrice Premio Oscar Julianne Moore, che appare giusto e condivisibile, però con alcune incertezze. Leone d’oro è il documentario – l’unico in gara – “All the Beauty and the Bloodshed” della statunitense Laura Poitras. Per il terzo anno consecutivo una regista donna, che si confronta con tematiche sociali, vince a Venezia, dopo Chloé Zhao nel 2020 con “Nomadland” e Audrey Diwan nel 2021 con “La scelta di Anne”. Un palmares che nell’insieme convince, trovando conferma anche per i pronostici relativi a “Bones and All”, “The Banshees of Inisherin” e “TÁR”. Non si nasconde però una certa sorpresa per alcune dimenticanze, a cominciare da “Argentina, 1985”. Il punto Cnvf-Sir sulla Mostra.
Sguardo sull’America tra arte e impegno civile
“All the Beauty and the Bloodshed”, il film incoronano alla Mostra, è un ritratto dell’artista Nan Goldin e della sua battaglia a viso aperto contro le drammatiche dipendenze generate negli Usa dal farmaco OxyContin (ossicodone) prodotto dalla Purdue Pharma (tema che torna anche nella serie Tv “Dopesick” ideata da Danny Strong, disponibile su Disney+). Il film mette a tema l’impegno della Goldin e il gruppo P.A.I.N. contro la famiglia Sackler, proprietaria dell’influente casa farmaceutica; le loro pressioni affinché importanti strutture museali internazionali rifiutino i fondi elargiti dal gruppo farmaceutico. Denaro macchiato di sangue. Un racconto che fonde istanze civili con il profilo artistico della fotografa Nan Goldin.
È sempre un viaggio nel cuore degli Stati Uniti, nelle periferie urbane ed esistenziali, quello che firma il regista italiano Luca Guadagnino. Il suo “Bones and All” vince il Leone d’argento per la miglior regia e il premio Marcello Mastroianni per il talento emergente Taylor Russell. È un racconto macabro e poetico insieme, la storia di due adolescenti (oltre alla Russell è da ricordare Timothée Chalamet, che del film è anche produttore) problematici e cannibali, che provano a cambiare vita, inseguendo il sogno americano di riscatto, che purtroppo non arriva. Per Guadagnino, più volte in Concorso a Venezia in vent’anni di carriera, è una conferma per la qualità e l’internazionalità della sua regia, per il suo sguardo elegante e raffinato, capace di maneggiare con grazia un tema così scivoloso come l’uso del cannibalismo in chiave metaforica.
Potenti racconti di donne, sulle donne
Il Gran premio della giuria è andato alla regista franco-senegalese Alice Diop per il suo “Saint-Omer”, riflessione sulla maternità e i suoi deragliamenti oggi, mettendo in scena un racconto in parallelo tra una madre accusata di infanticidio e una scrittrice alle prese con i primi mesi di gravidanza, tenendo sullo sfondo l’archetipo di Medea, proposto sul tracciato dello sguardo pasoliniano. Film intenso, misurato, struggente.
Donne al comando, ugualmente esposte alla corruzione del potere, sono al centro del film “TÁR” di Todd Field, che ha permesso a Cate Blanchett di vincere la Coppa Volpi come miglior attrice. La diva hollywoodiana, già due volte premio Oscar, si impone su tutte le altre alla Mostra – scalzando la favorita Ana de Armas (le due se la vedranno di certo agli Oscar 2023) –, con una performance maiuscola, spigolosa e di non facile incasellamento. La Blanchett è Lydia Tár, direttrice d’orchestra statunitense, chiamata a guidare il tempio della musica classica in Germania, la Berliner Philharmoniker. Una donna arrivata in cima, che ha rotto il soffitto di cristallo, ma che purtroppo non ha fatto i conti con il proprio ego e un temperamento malsanamente impositivo (viene sommersa di accuse di abuso di potere e molestie). Un racconto algido, controllato, che la Blanchett eleva.
La Coppa Volpi maschile va a Colin Farrell per la sua interpretazione giocata su corde inconsuete nel film “Gli spiriti dell’isola” (“The Banshees of Inisherin”) di Martin McDonagh, dramma ambientato negli anni ’20 in Irlanda, sullo sfondo della guerra civile, che l’autore rielabora con umorismo nero, suggestioni religiose e folcloristiche. Un’opera che recupera dei topos dal cinema di Ingmar Bergman (“Il settimo sigillo”) e Robert Bresson (“Au hasard Balthazar”). McDonagh è stato premiato anche per la miglior sceneggiatura.
Grandi assenti
Se è giusto il riconoscimento per il regista iraniano Jafar Panahi e il suo “Khers nist” (“No Bears”), per quello sguardo sempre incisivo e realistico nonché per l’impegno a favore della libertà di espressione in Iran – l’autore è stato incarcerato ingiustamente, per la seconda volta, lo scorso luglio –, ci sembra doveroso evidenziare qualche mancanza nel palmares della Mostra. Spiace, infatti, non cogliere alcun premio per l’altro racconto dal valore civile, “Argentina, 1985” di Santiago Mitre con un immenso Ricardo Darín: il primo film argentino a occuparsi del processo che ha fatto Storia, l’accusa al generale Videla e ai vertici delle forze armate per i crimini contro la popolazione, accendendo un faro sulla piaga dei desaparecidos. Una narrazione che corre sul binario del cinema di impegno civile, vibrante, necessaria, che alterna il legal drama-thriller con lampi di acuto umorismo. Film sulla custodia della memoria e la tutela dei valori democratici. Tra gli altri titoli snobbati “The Whale” di Darren Aronofsky, impreziosito dalla struggente interpretazione di Brendan Fraser (si rifarà ai prossimi Oscar).
Famiglie in cerca di pacificazione
Legami madre-figlio/a, padre-figlio/a: il tema dominante, ricorrente, della 79a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia. Tanti film, la quasi totalità, riflettono su questo legame, e in generale sulla dimensione familiare. Non la semplice messa in mostra di conflitti e incomprensioni, bensì il bisogno disperato di pacificazione, di ricomposizione delle fratture. È questo il tracciato del bellissimo “The Whale”, la storia di un padre segnato da un’importante obesità, che usa il cibo per annientarsi, ma che sul crinale della vita pensa solo a ritrovare quella figlia adolescente data per persa. Il bisogno di perdono, e di perdonarsi.
Come “The Whale”, anche gli struggenti “Monica” di Andrea Pallaoro, cartolina dagli Usa su una donna transgender che perdona e ritrova la madre malata, che l’avena cacciata da casa, e “The Son” di Florian Zeller, un padre (un misurato Hugh Jackman) che non si dà pace per le fragilità esistenziali del figlio adolescente, per la sua depressione. Inoltre, il bisogno di comprensione e accoglienza ritorna anche nel delicato “L’immensità” di Emanuele Crialese, opera in cui Penélope Cruz presta il volto a una madre emarginata e dolente.
Ancora, è da ricordare l’acuto “The Eternal Daughter” di Joanna Hogg, (prodotto da Martin Scorsese), un viaggio verso l’accettazione del distacco, della morte, compiuto da una figlia adulta e l’anziana madre. Un doppio ruolo che Tilda Swinton cesella con classe. Dinamiche familiari a tinte forti poi in “Blonde” di Andrew Dominik, biopic atipico sulla diva Marilyn Monroe, dove ricorre assordante la mancanza della figura paterna nella vita di Norma Jean Baker: chiama tutti i suoi amori, le figure maschili, con il nomignolo “Daddy”.
Insomma, un caleidoscopio di famiglie bisognose di riaffermare il dialogo, di ritrovarsi, al di là dei silenzi, problematiche o diffuse incomprensioni. La parola ultima sta proprio nel perdonare e perdonarsi: è questo quello che resta di più, quello che importa. Storie in cerca di salvezza.