Alla ricerca di qualcosa che è stato nostro

Alcune letture ci permettono di guardare alla realtà con gli occhi della speranza

Foto Calvarese/SIR

Un libro che dovrebbero leggere in parecchi, tra uomini di scienza, credenti, agnostici, scettici, tiepidi, filosofi questo provocatorio (nel titolo) “La fede salverà la scienza. Conoscenza scientifica e credenza religiosa in dialogo” (San Paolo, 304 pagine, 22 euro) del filosofo Roberto Giovanni Timossi. Un vero e proprio attacco allo scientismo radicale e soprattutto alla presunzione di quanti profetizzano la morte della religione perché le nuove scoperte avrebbero reso inutile la fede. Timossi non va a senso unico, anzi, ammette, come nel caso Galilei, gli errori di una Chiesa che però poi ne ha fatto ammenda, e mette in guardia contro l’utopia di una tecnica onnisciente che tenta di sostituirsi a Dio: Heisenberg, premio Nobel 1932 per la Fisica, lo aveva messo in chiaro, il nostro è uno sguardo parziale e interno al sistema osservato. Con uno smitizzante ritorno al “caso” Darwin, che non aveva in realtà nessuna intenzione di demolire la fede (cosa che è stata tentata dal darwinismo rampante degli epigoni). E Darwin tornerà, guarda caso sempre in territorio cattolico, in altri libri di cui parliamo qui. Non solo: l’autore giustamente rimarca la fallibilità e la parzialità dello sguardo scientifico, emerse nei dibattiti, spesso finiti in risse e improperi tra uomini di scienza che non hanno offerto esattamente una prova di oggettività e imparzialità; anche perché, e fa bene Timossi a ricordarlo (anche se sarebbe meglio non anteporre ai nomi di alcuni il termine un po’ troppo semplicistico ateo), nei campi di concentramento quella scienza era al servizio dello sterminio senza senso. Né religioso né umano.
Si accennava alla fine del “caso Darwin” visto come triste banditore di una crociata anti-religiosa: anche Paolo Alliata, sacerdote e responsabile dell’Ufficio per l’Apostolato biblico della diocesi di Milano nel suo “Un sentiero per la gioia. Passeggiate letterarie” (In Dialogo, 160 pagine, 18 euro) ne parla senza timore: il sacerdote dichiara addirittura di amarlo per la sua capacità di stupirsi, lui scienziato dallo sguardo imperturbabile, di fronte alle “innumerevoli forme, bellissime e meravigliose” (sono parole del teorico dell’evoluzione della specie) che offre lo spettacolo di una natura in continua trasformazione. Alliata mostra come la letteratura squaderna ai nostri occhi lo spettacolo dello stupore del pascoliano Fanciullino che riesce a meravigliarsi di fronte a un’alba magari vista dalla abituale finestra di casa nostra. Un po’ come l’Uomovivo di Chesterton, che deve andarsene per poter tornare e scoprire la bellezza di quel ritorno, anche se gli altri lo prenderanno per matto. L’autore si rivolge poi al Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald: il genio dello scrittore americano riesce a mettere insieme il fascino profondo del personaggio e insieme il suo fallimento. Ragazzino povero, deve affrontare la fine di un amore da lui idealizzato, diventa ricco in modo equivoco e finalmente potrebbe prendersi la sua rivincita. Ma noi scopriamo che la sua non è altro che una fissazione, anche se nobile e cavalleresca, che gli impedisce di vedere il mondo, di guardare le altre bellezze. Un po’ come lo Scrooge del Canto di Natale di Dickens, tutto teso ad una paranoica accumulazione, in un percorso di solitudine e tristezza. Quando la letteratura può insegnarci la via attraverso la bellezza delle piccole cose.

La filosofia, la scienza (della cui pretesa assoluta obiettività stiamo scoprendo i limiti) gli abissi della psiche, Darwin, Freud e quel Dio che certe letture di Nietzsche vorrebbero morto, fanno parte del percorso di un’altra riscoperta: quella del bene in noi, operata della compianta Anne Dufourmantelle (1964-2017), psicoanalista morta nel tentativo di aiutare due bambini in difficoltà nel mare di Saint Tropez. Il suo “La potenza della dolcezza” (Vita e Pensiero, 136 pagine, 15 euro) non è solo un itinerario attraverso il bene che ci aiuta a capire come non tutto nell’esistenza sia ritorno al primitivo e alla violenza. L’autrice, che ha messo drammaticamente in pratica la sua convinzione che il rischio sia parte integrante e motrice della nostra vita, ci porta non nel quadretto alla Peynet, ma dentro le contraddizioni che il sopravvivere della dolcezza comporta nelle reazioni di quei tanti che non ci sono abituati. Nella letteratura, dove i personaggi del bene assoluto in Dostoevskij, o in Flaubert, Hugo, Melville scatenano la resistenza, l’odio, lo scherno, nello stesso Nietzsche, nella musica, ad esempio Mozart, nell’arte, con Rembrandt o il Beato Angelico. E l’autrice sta molto attenta a non confondere la dolcezza profonda con la debolezza e il “manierismo”, perché essa è in realtà un ritorno alla comunione con il tutto, che fa pensare anche ad Eliot e a quella geniale declinazione musicale di Bacalov, interpretata dal gruppo napoletano degli Osanna in “There will be time”: “Ho passato interminabili pomeriggi contando i giorni con i cucchiaini di caffè, alla ricerca di qualcosa che è già stato mio”. La dolcezza non è svenevolezza, ma riappropriazione delle profondità dell’essere.

E, parlando di Eliot, come non ricordare i cento anni del suo capolavoro, “La terra desolata” (tra le varie edizioni, ora in Poesie, Bompiani, – con la splendida, “storica” prefazione di Roberto Sanesi –, 487 pagine, 15 euro), diario poetico di una crisi che portò il poeta statunitense, ma naturalizzato britannico, alla conversione, alla fede, al giardino ritrovato dopo l’assenza e l’apparente dimenticanza. Proprio come nella psicoanalisi della dolcezza di Anne Dufourmantelle, il poeta cammina nel mondo delle contraddizioni, della violenza, dell’egoismo, ma in ogni suo verso si intuisce profeticamente la presenza di qualcosa che preme per tornare in superficie, la memoria archetipa del “luogo di grazia” di cui parlerà nel Mercoledì delle ceneri. Senza contare che quel titolo deriva dal Dante del XIV dell’Inferno, in cui Virgilio parla di “paese guasto”, la decaduta isola di Creta. Non è quindi una poesia triste, perché in essa si intuisce la persistenza della dolcezza nascosta in quel – così a noi contemporaneo – colloquio di chi è stanco e nauseato e può solo confessare “ho i nervi a pezzi stasera”. Nasce nel 1922 una delle basi della poesia di oggi. Gli amanti stanchi che si chiedono se quel loro incontrarsi solo fisicamente abbia ancora un senso, l’angoscia del volere, e dell’avere, tutto e subito. Una mancanza di senso che può essere letta benissimo in questa torrida estate perché così vicina alla speranza di un senso ritrovato, di una lacrima che redime, di una pioggia che cura e non solo la terra.

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