Partenza da Oscar per la Mostra del Cinema della Biennale di Venezia (31 agosto – 10 settembre). Non solo per la presenza al Lido di Bill Kramer, Amministratore delegato dell’Academy (Ampas), che promuove sinergie tra La Biennale, Cinecittà e l’istituzione dell’industria hollywoodiana; si registra infatti una parata di divi a stelle e strisce per l’apertura della Mostra, che quest’anno celebra la sua 79a edizione e i 90 anni dalla sua fondazione (dal 1932). A guidare la Giuria internazionale è l’attrice premio Oscar Julianne Moore, vincitrice a Venezia della Coppa Volpi nel 2002 per “Lontano dal Paradiso”; è poi nel segno di Hollywood il tappeto rosso inaugurale con il film “White Noise”, scritto e diretto da Noah Baumbach, da un romanzo di Don DeLillo, con Adam Driver, Greta Gerwig e Don Cheadle. E sempre in tema di divismo, omaggio al Lido all’attrice francese Catherine Deneuve, Leone d’oro alla carriera. Punto Cnvf-Sir dalla Mostra.
“White Noise” – Film d’apertura, in Concorso
È targato Netflix “White Noise”. Il colosso streaming al Lido ha sempre raccolto riconoscimenti pesanti, da “Roma” (2018, Leone d’oro) di Alfonso Cuarón a “È stata la mando di Dio” (2021, Leone d’argento – Gran premio della giuria) di Paolo Sorrentino. Ora spera nuovamente con il film di apertura di Venezia79 firmato dal newyorkese Noah Baumbach (tra i suoi successi “Storia di un matrimonio – Marriage Story” del 2019, presentato proprio al Lido). Tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, “White Noise” è un racconto che ci parla dell’America di ieri, ma si fa al contempo potente e disorientante metafora del nostro presente: al di là delle sfide poste da calamità o catastrofi, l’uomo si scopre più che mai fragile dinanzi ai grandi quesiti esistenziali come il senso della vita, la morte e l’Aldilà.
La storia
Stati Uniti, anni ’70-’80. Jack (Adam Driver) è un professore universitario specializzato in studi hitleriani, che affascina per la sua ars oratoria. È sposato, al quarto matrimonio, con Babette (Greta Gerwig) e insieme hanno quattro figli. Il deragliamento di un treno che porta sostanze chimiche e il conseguente incendio produce una pericolosa nube tossica che costringe gli abitanti della zona, compresi Jack e famiglia, ad abbandonare casa. Una corsa contro il tempo che si snoda in chiave tragicomica. Il drammatico evento diventa l’occasione, per Jack e Babette, per uno sguardo introspettivo, facendo emergere paure e irrisolti.
Metafora strampalata in cerca di senso
“Ho letto il romanzo di Don DeLillo all’università, alla fine degli anni Ottanta e mi è sembrato come se fosse adesso”. Così indica il regista Baumbach nelle note stampa di “White Noise”, aggiungendo: “Ho deciso di adattare il libro perché volevo fare un film che fosse folle come il mondo mi appariva. Non è solo il ritratto di un Paese, è anche la storia di una famiglia, del caos che cerca di nascondere, dei disastri da cui vengono travolti, del modo in cui fanno squadra e sopravvivono”.
Il tracciato dunque è chiaro, un sentiero che parte dalle suggestioni sociali dello scrittore Don DeLillo. Baumbach lo rielabora, curando anche la sceneggiatura oltre che la regia, dando forma dunque alla sua America, a quel caleidoscopio di paure, fragilità e smarrimenti collettivi e individuali che la popolano. E sullo sfondo di eventi sfidanti, più grandi come possono essere pandemia, guerra o disastri ambientali, l’uomo si ritrova solo con se stesso, allo specchio, chiamato a intraprendere una ricerca di senso e, se possibile, di salvezza.
Anzitutto Jack, l’accademico, che Adam Driver, attore di riferimento di Baumbach – lavora con lui dai tempi di “Frances Ha” del 2012 e con “Marriage Story” ha ottenuto nel 2020 la sua prima candidatura all’Oscar come attore protagonista – è un intellettuale ossessionato dalla morte e dalla corruzione della vita consumistica. Concentrato nel rileggere le fratture della Storia, i comportamenti delle masse che hanno partorito il mito di Hitler in Germania – si veda il curioso parallelismo con la mitizzazione di Elvis Presley negli Usa –, è sostanzialmente distratto nei confronti dei figli e della moglie Baba, Babette, che Greta Gerwig restituisce con delicata leggerezza. La donna di nascosto fa uso di farmaci, di psicofarmaci, per placare una depressione ruggente, generata da paure impalpabili.
Così, in una rocambolesca e confusionaria corsa verso la salvezza, tirata a ben vedere un po’ per le lunghe, i due coniugi rispolverano la verità del loro dialogo, si guardano negli occhi e confidano le reciproche ansie sul domani, spingendosi sulla soglia vita-morte. Un interrogarsi che sfiora la fede – non sembra però esserci spazio per la religione, descritta con disincanto in un fugace incontro della coppia con una suora del tutto pragmatica e cinica –, ma che poi tira dritto verso altre rotte.
Una famiglia che comunque prova a tenersi in piedi, a rimanere unita, abbandonandosi a speranze effimere e anestetizzanti. In questo il supermercato è l’emblema del paese dei balocchi, un luogo di pace apparente, di distrazione di massa. Da applausi la sequenza di ballo corale che impreziosisce i titoli di coda, che richiama non poco l’apertura di “La La Land” (2016), un’istantanea del sogno americano capovolto e deformante. Nel complesso, “White Noise” è un film acuto, brillante e feroce, che sceglie il sentiero della follia per attutire la drammaticità dei disagi dilaganti nella società occidentale odierna. Consigliabile, problematico, per dibattiti.
La nota critica di Massimo Giraldi, presidente Cnvf – Giuria Signis
“Al quarto film insieme, il duo artistico Baumbach-Driver prova a fare un passo avanti coinvolgendo un romanziere di peso dell’America contemporanea, Don DeLillo. Il risultato è un racconto stratificato e ondivago, che tocca varie sfumature di carattere senza mai un approfondimento convincente. In effetti, le varie situazioni nelle quasi incorre il protagonista Jack-Driver si avvitano su note grottesche e paradossali, dallo scarso ancoraggio realistico. Bene, ma non benissimo”.
Alla Deneuve il Leone d’oro
Nell’incontro con la stampa la diva di Francia Catherine Deneuve, Leone d’oro alla carriera a Venezia79, ha parlato con grande schiettezza del suo amore per il cinema e del suo legame con l’Italia, con la Mostra, nato nel 1967 con “Bella di giorno” (“Belle de jour”, Leone d’oro) di Luis Buñuel. Citando così il regista messicano e il francese Jacques Demy, l’attrice ha parlato molto del cinema attuale, che vede in profonda trasformazione; e nonostante i suoi tanti, evidenti, cambiamenti, per la Deneuve il cinema rimane centrale, come attrice e spettatrice. Alla domanda, poi, su eventuali consigli da dare alle attrici emergenti, risponde con ironia lapidaria: “Mai!”. Ognuna, spiga, ha il proprio percorso e la propria originalità. La Deneuve ha glissato infine con eleganza davanti alle domande sugli appellativi di “icona” a “sex symbol”. Si è limitata a parlare del suo mestiere di attrice, esibendo con discrezione una bandiera dell’Ucraina appuntata sulla giacca.