Uccisa la sera del 23 agosto mentre era al telefono con la sorella che ha sentito l’aggressione in diretta. Alessandra Matteuzzi, 56 anni, è stata massacrata a martellate dall’ex compagno, il calciatore Giovanni Padovani, 27 anni, che non accettava la fine della relazione. All’indomani del femminicidio la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto di “svolgere con urgenza accertamenti” in merito ai provvedimenti non presi dopo la denuncia per stalking fatta dalla vittima contro il suo assassino lo scorso 29 luglio.
È un torrente in piena Isolina Mantelli, presidente del il Centro calabrese di solidarietà con sede a Catanzaro, all’interno del quale è attivo dal 2012 anche “Mondo rosa”, centro antiviolenza e casa rifugio per accogliere donne vittime di violenza di genere con i loro figli. Impegnata con passione h24 sul campo, Mantelli parla con il Sir di “ennesima morte annunciata”. “Quello che mi colpisce e inquieta è il regime di terrore in cui è vissuta questa donna. Un terrore apparentemente inascoltato – ma l’indagine chiesta dalla ministra Cartabia farà chiarezza – per quasi un mese da chi avrebbe dovuto dare risposte”. Mantelli non si sbilancia in attesa degli esiti di questi accertamenti, ma una cosa è certa, scandisce: “Dopo la sua denuncia del 29 luglio non è successo nulla; eppure Alessandra Matteuzzi aveva allertato la sorella ed anche un vicino di casa. Ammesso che la magistratura abbia i suoi tempi tecnici e che siamo in periodo di ferie, il femminicidio è un grave allarme sociale e questi segnali non dovrebbero mai essere sottovalutati, altrimenti facciamo il gioco degli assassini”.
Il procuratore di Bologna Giuseppe Amato ha escluso un caso di “malagiustizia” ed ha spiegato che per concludere le indagini occorreva attendere il rientro dalle ferie di “alcune persone da sentire”.
È presto per esprimere opinioni su una vicenda ancora da chiarire, ma mi sembra che in casi di emergenza come questo si dovrebbe poter attivare una corsia preferenziale con procedure d’urgenza più agili come l’ascolto di testimoni in videochiamata ma soprattutto, in attesa di concludere le indagini,
si dovrebbe mettere in sicurezza la donna che ha sporto denuncia.
Mi metto nei panni di Alessandra: camminare guardandosi alle spalle, avere paura della propria ombra e del minimo rumore, essere costretta a parcheggiare l’auto in strada anziché nel garage per ridurre al minimo il percorso a piedi verso casa, non sentirsi sicura in nessun luogo… un terrore che invade la vita e ti uccide un po’ alla volta anche se sei ancora viva.
Ci troviamo di fronte ad un copione già visto infinite volte…
Una donna adulta, indipendente, realizzata nella professione a fronte di un “fanciullone” che la considera un oggetto di sua esclusiva proprietà. Per l’ennesima volta, di fronte all’abbandono, scatta nella mente maschile un cortocircuito: o mia o di nessun altro. Una violenza distruttiva legata all’incapacità di gestire la frustrazione del rifiuto. Che educazione avrà avuto questo uomo?
Continuiamo a non trovare risposte sul piano culturale,
questo è il vero problema. Mancano le uniche risposte utili a tentare di prevenire un fenomeno che non è arginabile solo con misure giudiziarie e provvedimenti punitivi.
Ma il codice rosso? Forse un divieto di avvicinamento avrebbe potuto evitare questa morte?
Credo che il codice rosso lo preveda; in questo caso non so dove sia finito… Le leggi esistono, ma probabilmente vengono applicate in base alla sensibilità delle diverse magistrature. Forse si poteva imporre il braccialetto elettronico…
Misure che però vengono spesso bypassate dagli autori di femminicidio…
Purtroppo, quando un uomo decide di eliminare “l’oggetto di sua proprietà” che non lo vuole più non lo ferma nessuno, ma l’uccisione di una donna è sempre preceduta da campanelli d’allarme, troppo spesso sottovalutati, che consentirebbero invece di identificare un probabile futuro assassino.
In quei casi come intervenire?
Bisogna tentare di fermarli in tempo inviandoli in comunità di recupero per uomini maltrattanti. Esistono strutture chiuse nelle quali, durante le fasi di indagine e ascolto dei testimoni, i magistrati potrebbero inviarli costringendoli, intanto, ad iniziare un percorso riabilitativo. Questo metterebbe in sicurezza anche la donna che ha denunciato dal momento che il periodo successivo alla denuncia è il più pericoloso. Per fermare la violenza contro le donne dobbiamo educare quelle che saranno le prossime generazioni, ma nel frattempo dobbiamo tentare di recuperare per quanto possibile i violenti di oggi, mettere in sicurezza le vittime e accelerare i tempi di indagine.
Altrimenti continueremo a fare il gioco di questi assassini.
Lei sottolinea l’importanza di educare al rispetto della donna fin da piccoli.
Ci vorrebbe una rivoluzione culturale. Noi siamo impegnate con “Mondo rosa” in un’attività capillare di prevenzione andando a parlare nelle scuole, nelle parrocchie, in Comune, presso i servizi sociali. Il potere maschile sulle donne si esprime in tanti modi. Qui in Calabria ve ne sono alcune sottoposte a violenza di tipo economico: donne che lavorano e sono costrette a consegnare i loro guadagni al marito al quale debbono poi chiedere 10 euro per andare dal parrucchiere… Come possiamo pensare ad un cambiamento se permangono ancora sacche nelle quali una certa cultura maschilista e prevaricatrice è accettata e considerata “normale” dalle stesse donne? Abbiamo tanto lavoro da fare anche con loro per aiutarle a sviluppare un’autocoscienza, ma nel momento in cui aprono gli occhi e si ribellano esponendosi al rischio di ritorsioni e violenze, debbono sapere a chi rivolgersi per chiedere protezione. Se Alessandra avesse chiesto aiuto ad un centro antiviolenza, se fosse entrata nel loro sistema di protezione, si sarebbe salvata? Non lo so, ma non posso fare a meno di interrogarmi.