“Quando si parla di suicidi in carcere non è un problema solo estivo, ma si verifica durante tutto il corso dell’anno, anche se d’estate si intensificano i momenti difficili per i detenuti”. A parlare al Sir è don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. In Italia il 2022 sicuramente è un anno nero sul fronte dei suicidi in carcere: da Nord a Sud purtroppo continuano ad aumentare i detenuti che compiono il gesto estremo, com’è avvenuto nei giorni scorsi a Monza, a Rimini e a Secondigliano (Napoli). L’ultimo caso, a Ferragosto, nel carcere di Torino, dove si è tolto la vita un venticinquenne. “Apprendo con dolore di un nuovo suicidio in carcere, a Torino. È un’estate davvero drammatica: il Ministero, l’Amministrazione penitenziaria molto stanno facendo per migliorare complessivamente la qualità della vita e del lavoro nei nostri istituti, ma il dramma dei 51 suicidi dall’inizio dell’anno riguarda tutti. Tutti siamo chiamati ad occuparci di questa parte importante della nostra Repubblica”, ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, commentando il nuovo dramma consumato tra le mura di un carcere. Secondo l’Associazione Antigone in Italia dentro il carcere ci si uccide 16 volte in più che “fuori”. Indubbiamente ci sono fattori che contribuiscono ad aumentare la sofferenza implicita nella privazione della libertà. Come il caldo di questa torrida estate, la riduzione delle attività, i diminuiti contatti con l’esterno. Ma non solo, come ci spiega l’ispettore dei cappellani.
“La maggior parte di coloro che vivono la drammatica esperienza del suicidio sono persone molto fragili psicologicamente, non hanno un supporto o si sono chiuse in se stesse e non fanno emergere le loro umane difficoltà. A queste persone fragili nei nostri Istituti occorre porre una maggiore attenzione sia a livello sanitario sia da parte del personale penitenziario. I fragili avrebbero bisogno di essere monitorati. Purtroppo, nei nostri Istituti le persone che hanno una forte fragilità psicologica sono molte, un po’ perché si sentono sole, un po’ perché non hanno davanti a sé un futuro, un po’ perché hanno perso la speranza, un po’ perché sono depresse. Sono tutti aspetti che possono incidere sulla scelta drammatica di suicidarsi. Il numero elevato dei suicidi non deve preoccupare solo gli operatori, ma la società tutta”, avverte don Grimaldi.
La situazione è difficile dappertutto? “Girando in diversi Istituti e anche dalla mia esperienza di tanti anni di cappellano nel carcere di Secondigliano – risponde il sacerdote -, ho notato che, in Istituti piccoli o maggiormente organizzati, questa forma di sofferenza e di solitudine non si vive fortemente, ma in tanti altri Istituti si vede l’abbandono dei detenuti che per 24 ore si ritrovano soli in cella, non ci sono attività o almeno in certi periodi le attività sono sospese, non entra il mondo del volontariato, non ci sono corsi che impegnano i detenuti e li aiutano a vivere, per quanto è possibile, serenamente la propria detenzione. Queste situazioni si aggravano nei periodi estivi, soprattutto luglio e agosto sono tempi un po’ morti all’interno del carcere, perché molto personale va in ferie e tanti detenuti si sentono soli e abbandonati. Molte volte anche i familiari non riescono ad andare a trovarli per i colloqui perché spesso le carceri si trovano in luoghi lontani dalle residenze delle famiglie e i viaggi sono costosi o difficili da organizzare. Questo è un altro problema perché le famiglie sarebbero un supporto importante”.
Il sovraffollamento può essere una delle cause che inducono al suicidio? “È un problema annoso nelle nostre carceri e di cui si discute da anni, si stanno cercando vie per ovviare il problema e ridurre la presenza dei detenuti in carcere, ci sono molti che potrebbero uscire ma non possono farlo a causa della burocrazia, perché non hanno una dimora, non hanno familiari che li accolgono – precisa don Grimaldi -. Il sovraffollamento incide anche negativamente sulla serenità dei nostri Istituti, anche per il personale è più difficile gestire la situazione. Faccio un esempio: un educatore non può facilmente assolvere il suo compito di fronte a una presenza raddoppiata di detenuti. I colloqui vengono meno, il rapporto interpersonale viene meno, anche tutti gli aiuti possibili vengono meno. Dunque, sì, il sovraffollamento contribuisce al rischio suicidi.
Quando un detenuto sta male ha bisogno urgentemente di essere ascoltato, ma il più delle volte ciò non avviene.
In più quando non ci sono educatori specifici, psicologi, vediamo che la Polizia penitenziaria cerca di sostituire in tutto queste figure, perché ha il polso della situazione e sa chi ha più bisogno di sostegno, vengono anche scritte relazioni, ma tante volte non ricevono risposte, anche per mancanza di personale che le dovrebbe prendere in carico”.
Per contrastare il dramma dei suicidi in carcere il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha annunciato la messa a punto di nuove linee guida che puntano a rafforzare il carattere permanente delle attività di prevenzione. “Un ‘intervento continuo’, attraverso il quale – si legge nella circolare – il Dipartimento, i Provveditorati regionali e gli Istituti penitenziari siano tutti coinvolti, in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. La circolare, firmata dal capo Dap Carlo Renoldi, ha l’obiettivo di rinnovare, anche con il coinvolgimento delle Autorità sanitarie locali, gli strumenti di intervento e le modalità per prevenire il fenomeno tragico dei suicidi che in questi mesi sta facendo registrare un sensibile incremento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. “Di documenti ce ne sono tanti in giro – commenta don Raffaele – , soprattutto sul rispetto della dignità della persona. Se fosse messo in pratiche quanto scritto in circolari e documenti qualche aspetto problematico si risolverebbe. Ma dobbiamo dire con franchezza che la circolare è una cosa e la sua attuazione un’altra. Nell’ultima circolare dell’8 agosto si parla molto della necessità di un’attenzione da parte del mondo sanitario a persone fragili. Infatti, anche l’aspetto sanitario in carcere non è molto presente, proprio a causa del sovraffollamento che rende difficile rapportarsi a tutti i detenuti che vivono queste fragilità”. L’ispettore generale aggiunge: “Si investe molto sulle strutture penitenziarie, ma poco sulle misure alternative, che potrebbero essere le occasioni non solo per evitare il sovraffollamento ma anche per dare una prospettiva di futuro. Ma spesso le strutture dove realizzare le misure alternative non sono sostenute economicamente e tante comunità sono costrette a chiudere. Sarebbe sicuramente importante investire su queste realtà esterne per dare la possibilità ai detenuti di usufruire delle misure alternative”.
Il sacerdote ricorda che “molti episodi di suicidio avvengono perché in tanti detenuti, ammalati, psicologicamente deboli o meno, manca la certezza di futuro. Alcuni suicidi si verificano proprio alla vigilia dall’uscita dal carcere proprio perché quei detenuti non hanno prospettive, non hanno una famiglia che li accoglie, non hanno un luogo dove deporre il loro capo, non hanno un lavoro, non hanno un futuro, si sentono presi da una grande paura che si trasforma nell’azione drammatica del suicidio”.
Accanto ai detenuti e ai loro familiari ci sono, per quanto è possibile, “i cappellani”: “Facciamo da ponte tra loro e le famiglie. La nostra presenza in carcere è non solo morale, ma anche un aiuto materiale perché tante volte i ristretti non hanno neanche il necessario. Tante volte noi cappellani, con l’aiuto dei volontari, dei religiosi e delle religiose che lavorano negli Istituti, siamo non solo la valvola di sfogo, ma un’ancora di salvataggio per molti detenuti. Il ruolo del cappellano in carcere è fondamentale, quindi, anche se tante volte la sua figura viene messa un po’ da parte: ad esempio, quando proponiamo attività particolari per far sì che i nostri Istituti siano maggiormente umanizzati troviamo ostacoli. Il nostro ruolo è umanizzare le carceri attraverso attività spirituali e di promozione umana – sottolinea don Grimaldi -. Ma tante volte i cappellani si lamentano che non possono vivere serenamente il loro ministero e sono ostacolati, per motivi di sicurezza o altro, e non possono svolgere adeguatamente il loro servizio e apostolato.
Siamo consapevoli di essere la voce di Dio che vuole entrare tra le sbarre per portare pace, serenità e speranza.
Oggi il carcere, infatti, rappresenta una delle periferie esistenziali di cui parla Papa Francesco. Ogni volta che mi incontro con i vescovi li sollecito ad aiutare il mondo carcerario, una scelta pastorale di vicinanza per stare, come ci chiede il Pontefice, accanto agli scartati della vita”.