“Le parole dell’omelia di Francesco di quella sera sembrano misteriosamente dialogare a distanza con il quadro (conservato proprio nelle collezioni dei Musei Vaticani) e le parole di de Chirico degli anni della Seconda guerra mondiale”.
La sera cui allude Lorenzo Canova nel suo assai profondo saggio su de Chirico e la pittura sacra, all’interno del catalogo della mostra a Rieti è quella del 27 marzo 2020, quando papa Francesco pregò per la fine della pandemia. La vicinanza del pontefice a de Chirico, che questa importante esposizione rivaluta nelle sue componenti anche religiose, è vista alla luce di un quadro, Cristo e la tempesta, ispirato dalla lettura del Vangelo di Marco e ad alcune considerazioni del grande artista sulla miseria e l’empietà del nazismo che ha portato guerra e strage anche laddove erano innocenza e umanità.
Giunti al termine di una esposizione che ha rivalutato non solo la pittura, la scultura, l’arte scenografica, la profonda religiosità del maestro, ma anche la sua conoscenza del mito, non possiamo che lodare una iniziativa, Giorgio de Chirico. Gli spettacoli disegnati iniziata il 13 aprile, ospitata a palazzo Dosi Delfini di Rieti organizzata dalla Fondazione Varrone in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico e il monastero di Santa Filippa Mareri di Borgo San Pietro. I curatori Simona Antellini e Lorenzo Canova sono riusciti contemporaneamente a offrire ai visitatori uno sguardo diacronico dello svolgimento della poetica artistica dechirichiana e a approfondire quello che spesso e volentieri l’iper-laicismo ideologico di alcuni aveva se non nascosto tenuto in penombra:
il lento passaggio da una metafisica basata sulla epifania degli oggetti -che conosceva in letteratura la grande stagione di Eliot, Woolf, Joyce (senza dimenticare il realismo magico che in Italia ha offerto contributi assai importanti, non ultimo quello poetico-narrativo-artistico del fratello di de Chirico, Alberto Savinio) – ad un oltre la materia dal chiaro indirizzo religioso.
Gli stessi scritti del maestro, meritoriamente riportati nel bel catalogo, offrono la sostanza di cambiamenti presenti in tutti i grandi di qualsiasi disciplina, soprattutto se rapportati alla grande affermazione di un pensiero, come quello di Bergson, che affossava il materialismo naturalistico di fine Ottocento riportando lo slancio vitale -e continuo- dello spirito al centro della riflessione umana.
Non solo il dolore, perfino del cavallo del centurione che nella Crocifissione sembra guardare allo spettatore fuori dal quadro (il gioco meta-scenico è il centro focale di questa mostra) con un dolore radicato nel tutto non solo antropico, ma anche la rivelazione apocalittica, qui riportata nello splendore delle opere presenti in un monastero assai caro a de Chirico e alla consorte, anch’esso nella sabina reatina: quello di santa Filippa Mareri a Borgo San Pietro. Qui si tocca con mano come la religiosità del genio sia una dimensione mai compiuta, ma in rapporto -che oggi si chiamerebbe olistico- con le nuove forme, la cronaca, gli oggetti, le ideologie, ciò che i romantici tedeschi avrebbero chiamato Spirito del Tempo.
Alcuni scritti di de Chirico sono impressionanti, perché fin dagli anni Cinquanta del secolo breve – ed è questa una componente del genio, la laica profezia – egli coglieva il rischio che la tecnica si impadronisse dell’uomo, svuotandolo delle sue capacità creative e profondamente religiose.
Le illustrazioni dell’Apocalisse, già pubblicate anni fa, qui a loro volta rivelano un senso di partecipazione insieme emotiva e razionale, in cui tecnica, abisso della discesa nella Scrittura, riaggallare dello scenario onirico compiono il prodigio epifanico, vale a dire, come si iniziò a sperimentare ai primi del Novecento, la riappropriazione delle cose e del senso profondo del divino in uno sguardo che si pone verso il futuro del Compimento e insieme guarda ai grandi maestri dell’inizio, e all’Inizio stesso di ogni cosa.