“Putin ha provocato un aumento mondiale dei prezzi delle materie prime energetiche per mettere sotto scacco gli europei che erano avviati sulla strada di un affrancamento dalla Russia. Se dovesse concretizzarsi il ‘price cap’ sul gas si capirà fino a che punto il leader del Cremlino vuole spingersi”. Ne è convinto Francesco Timpano, ordinario di Politica economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza, commentando al Sir i risvolti dell’invasione russa dell’Ucraina sull’approvvigionamento delle materie prime energetiche per l’Italia e l’Europa.
Professore, la guerra ha già avuto e avrà conseguenze sull’economia mondiale. Tra le più tangibili, l’aumento dei costi di carburanti e fonti energetiche, il caro bollette. Quanto a lungo peserà questa situazione?
L’evoluzione del conflitto è ovviamente uno degli elementi di incertezza sul futuro soprattutto dell’economia europea, che non è però quella mondiale. Complessivamente, le previsioni sia per il 2022 sia per il 2023 sono ancora di crescita dell’economia globale. Anche per l’Europa, nonostante guerra e pandemia, le previsioni sono ancora positive.
Non c’è dubbio che a pesare sarà il tema energetico: se la Russia dovesse decidere di chiudere il rubinetto del gas, soprattutto a Germania e Italia, questo determinerebbe la necessità di rallentamenti anche nella produzione dei due Paesi con un impatto sulla crescita europea.
Un’eventualità che si collega alla questione del “price cap”.
Tema sul quale l’Italia con il premier Draghi ha spinto molto, chiedendo l’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Ci aiuta a capirne di più?
Al momento non è ancora chiaro quale possa essere il meccanismo operativo di implementazione. Il tema è complicato e, semplificandolo al massimo, l’idea potrebbe essere quella che la Commissione Ue decida di centralizzare gli acquisti di gas dalla Russia provvedendo successivamente ad attribuire i rifornimenti ai Paesi, e quindi agli operatori pubblici o privati. A Gazprom si presenterebbe così un unico acquirente, la stessa Commissione o un’Agenzia, che dichiara di voler pagare il gas ad un certo prezzo, il famoso tetto. Questo scenario espone però al rischio che Putin si rifiuti di vendere il gas a quel prezzo e chiuda tutti i rifornimenti.
È possibile che questo accada?
Putin non può chiudere il gas dall’oggi al domani perché significherebbe azzerare una fonte fondamentale di proventi per un’economia che, sostanzialmente, ha poco altro: il grosso del Pil della Russia passa da gas e petrolio. Ma se decidesse di procedere alla chiusura, l’effetto sull’economia – soprattutto quella europea – sarebbe pesante. In ogni caso, questo è un elemento di incertezza molto forte.
A seguito dell’invasione dell’Ucraina, ci siamo scoperti molto dipendenti dalle fonti energetiche russe. Pensa che Putin abbia sfruttato questo fatto?
La Russia per anni ci ha rifornito gas a buon mercato, con un buon servizio, regolarmente. Dobbiamo ricordarci che ci è convenuto ridurre la nostra produzione di gas perché costava di meno approvvigionarsi in Russia. Il modello stava funzionando per l’Italia e l’Europa. Nel 2018 la Commissione Ue con l’Action Plan sulla finanza sostenibile ha chiamato a raccolta i capitali mondiali spiegando che in Europa verranno favoriti in modo pesante tutti gli investimenti che permetteranno il modello energetico basato sulle fonti fossili. L’anno scorso è stato deciso l’ingresso del gas nella tassonomia delle attività economiche sostenibili. Di fronte a questo scenario, nel quale cambia il modello produttivo europeo, per la Russia si profila un periodo complicato: per la prima volta l’Europa fa sul serio su questo fronte, con una sequenza di scelte e programmi, e Putin pare averlo capito. Magari è un’ipotesi azzardata, ma è possibile che prospettando una diminuzione di acquisto delle fonti fossili russe da parte dei Paesi Ue, Putin abbia provocato un aumento dei prezzi che costringe l’Europa ad approvvigionarsi in Russia ancora per qualche anno a prezzi più alti. Una strategia che è stata messa in atto quando i prezzi energetici già stavano aumentando, in una fase di grandissime tensioni in generale sui mercati delle materie prime e degli scambi internazionali dovute al riassestamento del sistema post-pandemia.
Negli ultimi mesi, il Governo italiano ha proceduto con la diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico. La dipendenza dal gas russo che l’anno scorso era il 40% si è ridotta al 25%, inoltre sono stati firmati accordi per forniture di gas da Algeria, Egitto, Congo, Angola e Mozambico. Poi ci sono Libia e Qatar… È la giusta strategia per il nostro fabbisogno?
Innanzitutto va premesso che negli scambi internazionali, oggi molto più che in passato, bisogna tener conto del rischio politico. Negli ultimi anni, come italiani e come europei, non abbiamo tenuto sufficientemente in considerazione questo aspetto con la Russia. Detto questo,
diversificare le fonti di approvvigionamento è una regola fondamentale.
Le operazioni fatte e che si stanno facendo, ovviamente anche forzate e inevitabili vista la situazione, sono anche in prospettiva importanti. Non dobbiamo però dimenticarci che molti di questi Paesi con cui stiamo discutendo o abbiamo accresciuto i contratti di approvvigionamento sono caratterizzati da forte rischio politico, si tratta di Paesi non sempre tranquilli. E dobbiamo tenerne conto, andando sempre più ad approvvigionarsi nel limite del possibile in Paesi con cui si hanno rapporti politici stabili e nei quali la stabilità è una prospettiva di medio-lungo termine. L’Eni di Mattei ci insegna che questo è uno degli elementi di maggior delicatezza, soprattutto per le materie prime energetiche.
Tutto questo avviene mentre dovremmo essere impegnati nella transizione ecologia…
La situazione non è semplice, perché la transizione energetica non è facile da concretizzare. Ma è sicuramente necessaria e questi mesi ci insegnano che il tema dell’affrancamento dalle fonti fossili – o comunque della riduzione della nostra dipendenza – dobbiamo finalmente prenderlo sul serio.
Il problema più urgente è quello del prossimo inverno, per affrontare il quale bisogna dove possibile riattivare le centrali a carbone, diversificare gli approvvigionamenti, far partire la rigassificazione sulla quale ci siamo colpevolmente fermati… Questi sono interventi fondamentali, che condizioneranno anche il medio-lungo periodo.
C’è poi un problema di interconnessione delle reti energetiche tra Paesi europei. Ma questo nulla toglie al fatto che bisogna andare avanti sugli investimenti per l’elettrificazione di gran parte dei nostri sistemi di approvvigionamento di energia, l’adattamento di tutte le infrastrutture, le auto elettriche, la produzione di batterie… Non possiamo non affrontare questa sfida, consapevoli che il rapporto tra interessi nazionali e collettivi europei è molto delicato: non ne usciamo se pensiamo che ogni Paese possa fare da solo.
In questa situazione, individua qualche elemento di ottimismo?
L’unica “buona notizia” della vicenda che stiamo vivendo è che anche le famiglie e i consumatori stanno ragionando sulla necessità di cambiare modelli di consumo per dipendere meno dalle fonti energetiche utilizzate finora.
Stiamo tutti prendendo consapevolezza che le risorse sono scarse e che la scelta di un loro utilizzo a prezzi bassissimi non sta in piedi, come nel caso dell’acqua.
I cittadini sono sempre più coscienti che accendere la lampadina, utilizzare il gas per cucinare, viaggiare in auto non sono scelte libere ma per le quali ci sono alternative che possono essere adottate. Le Comunità energetiche – malgrado non siano risolutive – sono un segnale dell’aumento della consapevolezza collettiva che la produzione energetica è un tema serio per il quale bisogna dare un contributo in termini di scelte individuali e bene ha fatto la Chiesa italiana a rilanciarle.