Viviamo nel paradosso: mai stati tanto immersi nei media, mai stati così disinformati. Non è solo un gioco di parole. La prima parte dell’enunciato è evidente: quando mai le persone hanno avuto tanti canali informativi a disposizione? Giornali, radio, tv, internet e un notiziario tascabile come lo smartphone capace di darci news dal mondo mentre accadono. Il solo ricordare l’attesa necessaria per sapere qualcosa da chi era lontano ai tempi dei nostri nonni ci immerge nella preistoria: scrivere una lettera, aspettare che varchi l’oceano in nave, poi che un’altra riporti la risposta da questa parte del mondo. Oggi tutto si risolve con una videochiamata. Lo stesso valeva e vale per le notizie: non serve che qualcuno scriva qualcosa e lo affidi ad un mezzo di trasporto perché giunga a noi; basta una connessione a internet e chiunque entra nel flusso ininterrotto delle news.
Eppure c’è chi puntiglia: tanti aggiornamenti non fanno un’informazione vera. Il che ha un senso preciso e condivisibile. Sappiamo tante cose, non sappiamo tanto. Ovvero: questo continuum comporta una rapidità di cambiamento che rende il nostro sguardo molto mobile, pronto all’incombente aggiornamento. Rovesciando il punto di vista: non avviciniamo davvero quanto accade, non ne scendiamo nelle profondità dei perché e dei per come. Più che catene di eventi che si legano a un prima e sviluppano un dopo, le notizie diventano fuochi d’artificio che si accendono e si spengono, uno dopo l’altro.
C’è però qualcosa capace di sovvertire il meccanismo: è l’evento epocale e inaspettato – come una guerra, una pandemia – che scardina tempi e modi sia nella diffusione che nella fruizione delle news. Lo sostiene uno studio dell’Osservatorio Nordest (pubblicato su Il Gazzettino, 18 maggio), che dimostra come la gravità cambi il media di riferimento.
In generale, infatti, la tv resta il mezzo più usato dai 50 anni in su e più si sale con l’età più la tv è presente. Internet è risultato trasversalmente importante: prioritario per i giovani, usato un po’ da tutti. I giornali invece sono sempre meno letti, a meno che non succeda appunto quel qualcosa di straordinario (guerra, pandemia) o di percepito importante (elezioni): allora i lettori crescono proporzionalmente al desiderio di saperne di più. Del resto oggi i giornali sono chiamati ad assolvere proprio il compito dell’approfondimento di quanto si sa già, comunicato in tempo reale da radio, tv o web. Il giornale ha la nuova vocazione dell’andare in profondità di ciò che è solo superficialmente noto. Là dove l’avverbio non esprime un giudizio su un media veloce, ma fotografa brevità e concisione tipiche di un lancio della prima ora, che ci rende edotti di quanto accaduto, ma lascia ampie sacche inesplorate. Sottolineatura non così lapalissiana come potrebbe sembrare, se è vero che spesso si crede di sapere dopo una googolata e la lettura di un paio di titoli.
Ilvo Diamanti ha definito quella odierna un’informazione ibrida: come un’auto che va sia a benzina che metano, così noi attingiamo alternativamente a più fonti. Il che male non è.
Non solo, i media a cui ci si rivolgiamo cambiano a seconda di cosa stiamo cerchiamo. Così alla voce fruizione le statistiche registrano il primato di tv (39%) e rete (38%), mentre seguono con distacco giornali (11%) e radio (9%). Invece alla voce fiducia nel media consultato la scaletta s’inverte: primeggiano radio (51%) e giornali (48%), seguiti da tv (45%) e internet (41%).
Situazioni recenti hanno ben dimostrato che un media non vale l’altro. Se quelli cui ci rivolgiamo non sono realizzati con scienza (professionalità dei giornalisti) e coscienza (deontologia del lavoro svolto che deve restare servizio d’informazione) ecco che gli errori di uno rimbalzano da un sistema all’altro, dando vita a cascate di bufale e di fake news responsabili di epidemie di disinformazione. Lo si è sperimentato nel corso della pandemia, quando si è arrivati a parlare di vera infodemia: un sovraccarico informativo non sempre connotato da accuratezza e affidabilità. Non è un fatto marginale o che interessa una sola categoria: sono ad ampio raggio le conseguenze della disinformazione quando si lega alla politica e alla salute.
Per questo, mentre ci apprestiamo a vivere la Giornata delle Comunicazioni sociali (domenica 29 maggio) non guasta ricordare che papa Francesco, anno dopo anno, nei suoi messaggi va stilando un vero vademecum a misura di giornalista. Ha scritto di una comunicazione a servizio della cultura dell’incontro, di fake news, di giornalismo di pace. E se l’anno scorso invitava a consumare le scarpe per andare a vedere di persona, quest’anno privilegia la dimensione dell’ascolto del proprio interlocutore. Perché la serietà di scrive si riversa sulla qualità del suo lavoro e quindi dell’informazione.
Informati e ingolfati
Viviamo nel paradosso: mai stati tanto immersi nei media, mai stati così disinformati. Non è solo un gioco di parole. La prima parte dell’enunciato è evidente: quando mai le persone hanno avuto tanti canali informativi a disposizione? Giornali, radio, tv, internet e un notiziario tascabile come lo smartphone capace di darci news dal mondo mentre accadono. Il solo ricordare l’attesa necessaria per sapere qualcosa da chi era lontano ai tempi dei nostri nonni ci immerge nella preistoria: scrivere una lettera, aspettare che varchi l’oceano in nave, poi che un’altra riporti la risposta da questa parte del mondo. Oggi tutto si risolve con una videochiamata. Lo stesso valeva e vale per le notizie: non serve che qualcuno scriva qualcosa e lo affidi ad un mezzo di trasporto perché giunga a noi; basta una connessione a internet e chiunque entra nel flusso ininterrotto delle news.