Non solo gratta e vinci. C’è il caro vecchio lotto e tutto il mondo costellato da sale slot e sfide on line. Dal gioco, lo Stato incassa 11,4 miliardi di euro, pari al 2,5 per cento dell’erario. Numeri impressionanti? A fare impressione dovrebbe essere la mole di regole che si sono sommate negli anni e il buco nero del gioco illegale.
L’Unione cattolica della stampa italiana (Ucsi), ha dedicato al tema un corso per i giornalisti, dal titolo “Le parole del gioco: strumenti per comunicare il gioco ed elementi deontologici”. Su sale scommesse, slot machine e giochi virtuali negli ultimi anni in Italia c’è stata una pioggia di provvedimenti, dello Stato, delle Regioni, dei Comuni. Il risultato rende lo scenario normativo un grande patchwork.
“Da liberale dico sempre che è meglio la regolazione”, commenta Alfonso Celotto, docente di diritto costituzionale dell’Università degli Studi Roma Tre, fra i relatori dell’incontro. Ma, spiega, “da venti anni ci stiamo portando avanti una normativa incerta, regolata su troppi livelli. Il gioco è competenza statale per quanto riguarda l’ordine pubblico e il gettito fiscale. Al tempo stesso è competenza regionale tutelare la salute ed è competenza comunale stabilire orari e distanze dalle scuole o dagli edifici di culto. Proprio sugli orari, i comuni hanno fatto varie norme, senza però un orientamento certo che hanno prodotto un quadro molto confuso”.
L’ipotesi di proibire il gioco, secondo Celotto, o di renderlo addirittura incostituzionale, non sta in piedi. “Non è vietando i fenomeni che si eliminano”. Anzi, tutt’altro. Se lo Stato rende illegale il gratta e vinci, getta nelle braccia della criminalità organizzata le persone più fragili e chi in quel tagliando punta tutto, anche la vita. Cosa servirebbe quindi? “Serietà nella regolazione – suggerisce – che oggi è troppo spesso frettolosa e pressapochista per cui ci troviamo in enormi paludi normative. Questo modello di regolazione senza unitarietà e certezza porta a molta confusione”.
Anche dal punto di vista finanziario, non conviene che lo Stato si allontani dal tenere gli occhi puntati. I dati sul gioco vietato rappresentano un’incognita, non si conosce infatti il reale volume economico che gira attorno. Di sicuro sono note le conseguenze dell’illegalità: si va dalla minore protezione del giocatore alla mancata raccolta delle imposte, dalla crescita degli interessi delle organizzazioni criminali al riciclaggio di denaro sporco fino al danno degli operatori economici che seguono le regole delle concessioni.
“La letteratura scientifica è d’accordo nel dire che dove si è aumentata la percentuale di gioco legale si è ridotta la quota dell’illegale. Se fosse vietato il gioco legale ci sarebbe un travaso nell’illegale”, ricorda Raffele Oriani, ordinario di Finanza aziendale della Università Luiss. Secondo un report del 2021, curato dalla Business school della Luiss e dall’Ipsos, il fenomeno in Italia è ampiamente diffuso, tanto è vero che il 67% della popolazione dichiara di aver giocato nei dodici mesi precedenti, il 9,5% ha giocato su canali non legali, spesso senza saperlo, e il 40% è consapevole delle conseguenze ma continua a giocare in modo illegale. “La spesa del gioco varia al variare del reddito, l’elasticità è positiva ed è pari allo 0,42”, aggiunge Oriani. Questo significa che se una persona guadagna 2000 euro e gioca cento euro al mese, se dimezza l’entrata, non dimezzerà automaticamente la somma da giocare ma la porterà a 80. In sostanza, si tratta di un bel rischio per migliaia di famiglie e persone sole.
Proprio di chi non riesce a far meno del gioco parla la psichiatra del Servizio sanitario nazionale, Sarah Viola, che sui tentativi per limitare e regolare il fenomeno dà un giudizio netto: “Quello che è stato proposto finora non serve a niente”. Il gioco diventa patologia quando interferisce con la vita del soggetto: “I soggetti perdono qualsiasi forma di libertà, si sottraggono alla relazione con chiunque”. Per loro “l’oggetto della dipendenza è più importante delle persone, diventa rassicurazione. La persona si sposta dal desiderio dell’oggetto al bisogno”. Tutti possiamo diventare dipendenti? “No – risponde la specialista -. C’è chi è refrattario e ha degli anticorpi. I soggetti più esposti sono quelli che meno reggono di fronte ai ‘no’ della vita”. Chi è ludopatico “non vuole guarire, vuole il sintomo. La dipendenza dà un’identità, anestetizza, dà piacere, distrae, porta fuori dai problemi. Rinunciare a un sintomo di questo tipo è difficilissimo. Ecco perché dal nostro punto di vista, le leggi fatte finora non possono funzionare perché più l’oggetto viene allontanato e più il bisogno fisico aumenta. Chiudere o ridurre le fasce orarie non serve a nulla”. Sulle contromisure da adottare, la psichiatra invita lo Stato a “creare una rete di interventi, che permettano al soggetto di dire che si può voler bene. Non abbiamo mai fatto niente di mirato e con una base scientifica contro le dipendenze. Le piccole realtà italiane che comunque esistono, che si mettono in moto e affrontano in maniera diversa funzionano meglio del legislatore”. Il lavoro di prevenzione va fatto nelle famiglie e – secondo Viola – i corsi andrebbero condotti nelle stesse sale gioco dove far entrare gli ex giocatori che sanno parlare con chi ha ancora fa i conti con la dipendenza. Infine “nei casi di anziani dipendenti, è indispensabile accompagnare il percorso con un ascolto maggiore e il rinforzo affettivo”.