“La guerra ha acuito i problemi, ma per alcune materie prime erano aumentati i costi quando la Russia non aveva ancora invaso l’Ucraina. Il rischio è che l’economia crolli, bisogna evitarlo per scongiurare una crisi sociale”. Così Maurizio Casasco, presidente di Confapi, commenta al Sir l’attuale situazione economica, in particolare quella delle piccole e medie industrie private italiane costrette a fare i conti con l’aumento dei prezzi delle materie prime, il rincaro delle bollette energetiche e, più in generale, le ricadute del conflitto.
Presidente, che periodo sta attraversando il mondo delle piccole e medie industrie italiane?
La situazione è particolarmente critica e preoccupante per via sia delle materie prime sia dei costi di petrolio, energia, gas. Come Confapi abbiamo evidenziato criticità già oltre un anno fa e la crisi generata dalla guerra le ha amplificate – portandole anche sulle prime pagine dei giornali.
Di fatto è da un anno e mezzo che le piccole e medie industrie fanno i conti con questa situazione, avendo una catena di trasmissione più corta per la messa a terra dei problemi che avvertono. Il conflitto russo-ucraino ha acuito le problematiche ma, per esempio, l’aumento del costo di materie prime come l’acciaio è stato denunciato da noi oltre un anno fa.
In quel frangente abbiamo portato all’attenzione il tema della continuità scelta dall’Ue delle clausole di salvaguardia relative all’importazione di molte materie prime, tra cui l’acciaio. Già allora era evidente che la combinazione delle scelte della Cina – che ha messo il blocco all’esportazione dell’acciaio e del rottame ferroso – e dell’Europa – che ha lasciato libera l’esportazione del rottame ferroso verso la Turchia e ha messo i dazi del 25% all’importazione dell’acciaio – facessero schizzare il prezzo dell’acciaio. Questo è avvenuto ben prima della guerra, l’ho fatto notare io stesso già ad ottobre scorso denunciando addirittura che un oligopolio di acciaierie europee – una quindicina – spingeva perché questi blocchi fossero mantenuti quando le navi, fuori dai porti italiani, aspettavano per importare.
Negli ultimi mesi anche le imprese hanno dovuto fare i conti con nuovi costi…
Oggi viene ribaltato il prezzo 2-3 volte rispetto al costo reale. Per questo abbiamo chiesto l’intervento dell’Autorità Garante della concorrenza per verificare se il prezzo in cima alla filiera viene ribaltato realmente rispetto ai costi reali aggiunti o se c’è speculazione. La guerra tra Russia e Ucraina ha aggravato il problema perché ha coinvolto diverse materie prime – sementi, oli, fertilizzanti, nichel,… – che sono venute meno. Ad un logico aumento dei prezzi legato alla situazione contingente si sono aggiunte la speculazione sui prezzi e quella di interventi di tipo finanziario che hanno portato allo stato attuale.
Anche il mondo produttivo paga le scelte – fatte o rimandate – sul fronte dell’approvvigionamento energetico…
Il problema principale è che ci siamo legati troppo e in maniera ottusa – e questo ha riguardato tutti – ad un unico grande fornitore, la Russia, badando soprattutto a contratti corti per guadagnarci il vantaggio del prezzo. Questo, ovviamente, riguarda le scelte politiche oltre che delle aziende. In questi mesi lo Stato è intervenuto, in parte, cercando altre fonti energetiche che però non risolvono il problema attuale ma verranno utili da qui a due anni. Ricorrere alle energie rinnovabili o al sistema atomico, al di là del fatto che si possa o meno essere d’accordo, non garantisce una soluzione immediata.
Siamo tutti favorevoli alla transizione ecologica ma non possiamo non evidenziare che il passaggio da un’economia basata sull’energia fossile ad altre fonti più sostenibili richiede tempo. Trasformare le industrie e i processi, introducendo innovazione e tecnologia necessarie, è tutt’altro che immediato.
Quali conseguenze sta avendo la guerra in Ucraina sulle nostre aziende?
Da una parte c’è da considerare che ci troviamo di fronte ad una situazione incredibile di crimini di guerra determinata da chi ha invaso. Dall’altra, noi europei paghiamo l’essere sul fronte geopolitico,
le economie europee pagano mentre quelle degli altri Paesi occidentali no.
La nostra economia ha bisogno di energia e con il suo attuale costo le nostre aziende non hanno più margini e continuano a produrre in perdita solamente per rimanere aperte e mantenere i posti di lavoro.
Lei è presidente anche della Cea-Pme, la più grande confederazione europea di piccole e medie imprese. Che futuro ci attende?
Come Europa abbiamo bisogno di una politica più forte e unitaria; continuiamo ad essere alleati della Nato, ma dobbiamo farlo con una posizione che difenda i nostri valori, la nostra cultura, i nostri interessi economici, che sono anche sociali. A questo si aggiunge poi il fatto che
la Cina si prepara ad avere un ruolo sempre più influente in un mondo che io vedo sempre più diviso in due, con il superamento della globalizzazione. E si appresta a fare grande concorrenza non solo sulle materie prima ma anche sul prodotto finito.
Noi siamo diventati dei trasformatori perché abbiamo pensato di mandare acciaierie e fonderie in Cina perché qui inquinavano non considerando che l’inquinamento è della Terra.
In questa fase cosa la preoccupa?
Il rischio da evitare è che l’economia crolli e noi, come piccole e medie industrie, saremmo i primi a pagare.
E dietro una crisi economica, non possiamo dimenticarcelo, c’è una crisi sociale. Abbiamo in Italia 6 milioni di poveri ed è prevedibile che aumenteranno. Bisogna capire come
difendere i posti di lavoro e la dignità dell’uomo.
Anche perché, per la prima volta negli ultimi decenni, ci troviamo di fronte ad una situazione di recessione e di contemporanea inflazione:
il problema è serio, bisogna considerare economia e sociale insieme. L’economia deve preoccuparsi non solo dei legittimi interessi delle aziende ma deve mettere tutto a sistema. E la politica non può venir meno.
Come valutate i provvedimenti assunti in questi mesi?
Per alcuni versi il Governo ha fatto delle scelte anche positive, per esempio sui crediti d’imposta non solo per le aziende energivore ma anche per quelle più piccole. Sul costo dell’energia noi abbiamo fatto però una proposta più radicale: un credito d’imposta che valutasse l’incidenza del reale costo dell’energia sul fatturato totale.
Dal vostro punto di vista cos’altro è necessario?
Oggi serve una scelta shock. Capisco i problemi politici con l’avvicinarsi delle elezioni, ma ritengo che una parte consistente del Pnrr andava messa sulla riduzione del cuneo fiscale. È su questo aspetto che bisogna incidere,
un’azienda non può sostenere un costo di una e volta e mezzo lo stipendio di un dipendente. Inoltre, c’è un problema di stipendi che vanno aumentati, come aziende siamo disponibili ma ci dev’essere data la possibilità di farlo. Questo vale soprattutto per noi, piccole e medie industrie, che siamo molto più radicati sul territorio e abbiamo un valore sociale maggiore rispetto alle grandi che sono multinazionali e delocalizzano. In molte delle nostre piccole e medie aziende i titolari conoscono i dipendenti, con loro hanno un rapporto diretto. Servono aumenti contrattuali decontribuiti e detassati, si possono portare a 1.000 euro i bonus welfare… Va poi sottolineato che lo Stato è “avvantaggiato” dall’inflazione perché si riduce il debito ma con i prezzi delle materie prime che sono triplicati è triplicata anche l’Iva. Su questo si può intervenire, e credo “di più” che vada dato alle imprese – secondo parametri – come intervento sul cuneo fiscale.