Benedict Cumberbatch sorprende sempre. Diversifica ripetutamente le interpretazioni, dando prova di essere uno degli attori britannici più interessanti e completi della sua generazione. Nella stagione in corso si è imposto all’attenzione di critica e pubblico per il ritratto di un cowboy ruvido e sofferente nel “Potere del cane” di Jane Campion, arrivando a sfiorare l’Oscar. Dal 4 maggio è nei cinema con “Doctor Strange nel Multiverso della Follia”, nuovo atteso capitolo dedicato al maestro delle arti mistiche Stephen Strange. Siamo ovviamente nel Marvel Cinematic Universe. A dirigerlo è un regista cult specializzato nel brivido, Sam Raimi. E ancora, in sala troviamo il dolente e poetico “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” di Lee Daniels, ritratto di una delle cantanti americane più apprezzate del XX secolo. Volto e voce sono di Andra Day, candidata all’Oscar nel 2021 e vincitrice del Golden Globe. Il punto Cnvf-Sir.
“Doctor Strange nel Multiverso della Follia” (al cinema)
La prima volta che abbiamo visto comparire il personaggio di Stephen Strange nel ciclo della Marvel è stato con il film “Doctor Strange” (2016) diretto da Scott Derrickson. Sono seguite poi sue incursioni in “Thor: Ragnarok” (2017), “Avengers: Infinity War” (2018), “Avengers: Endgame” (2019) e “Spider-Man: No Way Home” (2021). Proprio quest’ultimo ha squadernato la linea narrativa portante (l’apertura del Multiverso) del film “Doctor Strange nel Multiverso della Follia”, diretto da Sam Raimi (sua è la trilogia “Spider-Man”, 2002-2007).
La storia (senza spoiler!). Stati Uniti, Stephen Strange (Benedict Cumberbatch) nel giorno in cui presenzia alle nozze della scienziata nonché sua ex innamorata Christine Palmer (Rachel McAdams), deve arrestare la minaccia di una creatura aliena che insegue l’adolescente America Chavez (Xochitl Gomez). Ben presto Strange comprende che America non è una ragazza come tante, perché ha dei poteri speciali che le permettono di spostarsi nei numerosi universi paralleli, appunto nel Multiverso. Avvertendo crescenti pericoli, chiede aiuto a Wanda (Elizabeth Olsen), ritiratasi a vivere in campagna…
Intricato, è intricato. “Doctor Strange nel Multiverso della Follia” è un film-dedalo ipnotico, affascinante, persino caotico, che non lascia di certo indifferente lo spettatore. Soffermiamoci anzitutto sulla linea del racconto, sulla caratterizzazione di Strange. Come sottolinea il regista Sam Raimi: “I fan dell’Universo Cinematografico Marvel sono interessati ai personaggi. Chi sono? Cosa sarebbero potuti diventare? Hanno fatto le scelte giuste? Persino in ‘Avengers: Endgame’, sono state fatte scelte di cui alcuni personaggi nel nostro film si sono pentiti. In questo film assisteranno alle ripercussioni di quelle scelte e sarà molto interessante da vedere”.
Raimi ci dà dunque la chiave per l’approfondimento: al di là dell’action, dell’eccesso seducente di effetti speciali – cifra stilistica-narrativa tipica dei film Marvel –, quello che rimane in campo è la condizione dell’eroe che vacilla, l’eroe che chiamato a portare il peso delle sue responsabilità, dei suoi doveri, a un certo punto si ferma a riflettere su di sé e sulle proprie scelte. Qui Strange si chiede se le azioni compiute siano giuste: dall’apertura del Multiverso a quelle più strettamente personali, l’epilogo della storia d’amore con Christine. L’eroe vive una vita sbilanciata nella corsa e nell’affanno, non ha tempo per costruire relazioni; e se riesce a svilupparle, spesso queste si infrangono rovinosamente. Ancora, altra figura di rilievo nel racconto è Wanda, che vive il tormento della sua condizione solitaria, senza più Visione, senza più amore e affetti, chiamata a contenere la ribellione interiore di Scarlet Witch.
Altro topos è la lotta bene-male, e soprattutto il rischio che corre Strange nell’addentrarsi nei sentieri del Male, della corruzione di sé, pur di giungere alla salvezza di America e della comunità tutta. Più volte viene sottolineato che accostarsi al Male corrompe, anche irreparabilmente.
Elemento distintivo di “Doctor Strange nel Multiverso della Follia” è soprattutto la regia di Sam Raimi, che introduce nel progetto sfumature cupe, che saccheggiano il suo background come regista di film horror e di tensione. Ammanta così il film dedicato a Doctor Strange di un alone decisamente fosco, tra minacce reali e demoni interiori del personaggio. Per tali motivi il target dell’opera vira leggermente, non più adatto ai piccolissimi, ma indicato dai preadolescenti-adolescenti in su.
Nell’insieme, il film volteggia spedita nell’orizzonte Marvel, coniugando forma e contenuto, spettacolarizzazione e introspezione, aprendo anche scenari onirici pronti a deragliare nell’incubo. Oltre alla mano ferma del regista Raimi, è doveroso ricordare l’ancoraggio al film fornito da Benedict Cumberbatch, un attore solido e capace di stare nel perimetro del ruolo, mettendo in campo tutte le sfumature richieste. Sullo spartito si muovono bene anche Elizabeth Olsen, Chiwetel Ejiofor, Benedict Wong, Xochitl Gomez, Michael Stuhlbarg e Rachel McAdams. Nell’insieme, “Doctor Strange nel Multiverso della Follia” è consigliabile, problematico.
“Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” (al cinema)
L’intensità della voce della cantane Andra Day emoziona, e non poco, nel film “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” di Lee Daniels, biopic sulla raffinata interprete Jazz-Blues Billie Holiday, dalla vita segnata da sconfortanti e ripetuti affanni, dipendenze e violenze. Una donna divenuta simbolo nella lotta contro il razzismo imperante e contro gli episodi di linciaggio, denunciati nella sua canzone “Strange Fruit”.
La storia. New York, 1939. Al Café Society nel quartiere Greenwich Village la venticinquenne Billie Holiday per la prima volta canta il brano “Strange Fruit” dello scrittore ebreo-russo Abel Meeropol, dove al centro del testo c’è la questione dei linciaggi ai danni dei neri nel Sud degli Stati Uniti (lo strano frutto è il corpo morto di un uomo appeso a un albero, dopo le violenze). Ben presto la canzone diventa un simbolo di opposizione. Questo la mette immediatamente contro l’agente della narcotici Harry J. Anslinger (Garrett Hedlund), che decide di pedinare con ossessione la donna, facendola arrestare. È l’inizio di un lungo periodo di vessazioni, dinanzi alle quali la Holiday dà battaglia, soprattutto con la sua inconfondibile voce…
A scrivere la sceneggiatura è la drammaturga Premio Pulitzer Suzan-Lori Parks, mentre alla regia troviamo Lee Daniels, autore di “Precious” (2009) e “The Butler” (2013), da sempre attento alla questione dei diritti degli afroamericani. Punto di forza della storia è quello di riuscire a riportare attenzione sulla travagliata esistenza e sullo straordinario talento di Billie Holiday. Il regista compone il suo ritratto in maniera intensa, coinvolgente, persino anche disturbante: nel voler rendere la fragilità e il tormento dell’artista, ci conduce nelle stanze della sua mente, dei suoi ricordi, esposti a ogni tipo di contaminazione. Un ritratto livido, sofferto, che però trova grazia e poesia quando Andra Day intona i brani della Holiday, svelando tutta la raffinatezza della sua voce. Daniels non risparmia nulla della storia, mostrando anche raccordi asciutti ed espliciti – del resto è la cifra dell’autore pensando proprio a “Precious” – non privando però l’opera di suggestioni più eleganti e ricercate.
Nel racconto trova posto anche una linea romance, il legame tra la Holiday e l’agente Jimmy Fletcher (Trevante Rhodes), prima suo fermo oppositore e poi capitolato al suono della sua voce. Un amore che la Holiday non riesce purtroppo a vivere, perché incapace di gestire la condivisione di un sentimento così delicato e pulito, lei che è sempre stata esposta a violenze, percosse e soprattutto agli abusi da parte degli uomini… Sfaccettato, sofferente, a tratti confuso, “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” è un film consigliabile, problematico e per dibattiti. Indicato per adulti.