Finalmente Downton! Dopo 52 episodi, 6 stagioni della serie Tv britannica da record (2011-16) e un primo film al cinema dal solido botteghino nel 2019, la magia e il trasporto verso la saga della famiglia Crawley e dei loro amati domestici nell’Inghilterra del XX secolo non smette di incantare. Dal 28 aprile è infatti nei cinema “Downton Abbey. Una nuova era” diretto dal regista Simon Curtis e firmato in maniera impeccabile ancora una volta da Julian Fellowes. Tornano tutti gli apprezzati interpreti, a cominciare da Maggie Smith, Michelle Dockery, Hugh Bonneville e Jim Carter. New entry sono Hugh Dancy, Dominic West e Nathalie Baye. Rimanendo in atmosfera inglese, su Netflix la miniserie “Anatomia di uno scandalo” firmata dal geniale David E. Kelley, creatore di “Big Little Lies”. Il punto Cnvf-Sir.
“Downton Abbey. Una nuova era” (al cinema)
Tornare a Downton è come tornare a casa: si viene assaliti immediatamente da emozioni avvolgenti e da un senso di gioiosa leggerezza. Infiamma il cuore. È quanto si sperimenta alla visione del film “Downton Abbey. Una nuova era” (“Downton Abbey. A New Era”), che prosegue il racconto della famiglia Crawley, posizionando temporalmente queste nuove vicende un anno dopo gli avvenimenti raccontati nel film del 2019.
La storia. Inghilterra 1928, residenza di Downton Abbey. Alla vigilia delle nozze tra Tom Branson (Allen Leech) e Lucy Smith (Tuppence Middleton), due importanti eventi giungono ad animare la quotidianità della famiglia Crawley: anzitutto Lady Violet (Maggie Smith), da poco tornata al castello per motivi di salute, viene a sapere di aver ereditato da un ex spasimante di gioventù una villa in Costa Azzurra; inoltre, una troupe cinematografica al seguito del regista Jack Barber (Hugh Dancy) chiede di poter girare un film nelle sale di Downton. Mentre quindi Lord Grantham (Hugh Bonneville) e Lady Cora (Elizabeth McGovern) si dirigono, con parte della famiglia e il fidato maggiordomo Carson (Jim Cater), nel Sud della Francia per sapere di più sulla misteriosa eredità ricevuta, dall’altro lato Lady Mary (Michelle Dockery) presiede le riprese del film “The Gambler”, fronteggiando i capricci delle star hollywoodiane Myrna Dalgleish (Laura Haddock) e Guy Dexter (Dominic West) e al contempo le ambizioni artistiche nella servitù, Molesley (Kevin Doyle) in testa.
Cambio della guardia per la regia del film “Downton Abbey”: dopo Michael Engler autore del titolo del 2019, passato ora al set della fortunata serie Tv “The Gilded Age” (sempre targata Julian Fellowes), dietro la macchina da presa questa volta troviamo Simon Curtis (“My Week with Marilyn”, 2011; “Vi presento Christopher Robin”, 2017). Il londinese classe 1960 si inserisce perfettamente nel team produttivo del rodato “Downton Abbey”, mettendo in campo una regia abile ed esperta, capace di tenere perfettamente in equilibrio toni narrativi e piani del racconto.
A garantire la piena riuscita di “Downton Abbey. Una nuova era” è però la sapiente ed elegante scrittura di Julian Fellowes, che non sbaglia davvero un colpo dal Premio Oscar per il copione di “Gosford Park” del 2002. Fellowes è acuto nell’intrecciare i fili della storia, inserendo anche scenari e personaggi nuovi, persino un curioso richiamo alla storia del cinema, alla Hollywood classica: l’avvento del sonoro, la crisi improvvisa di film e interpreti del muto, e l’urgenza di riconvertire la produzione in corso in un film parlato-doppiato (“talkie”), come successe ad Alfred Hitchcock nell’opera “Il ricatto” (“Blackmail”, 1929).
“Downton Abbey. Una nuova era” non è però solo questo. Ritroviamo infatti tutti gli elementi chiave dell’apprezzata serie, le dinamiche Upstairs-Downstairs, ossia tra piani alti della nobiltà e quello terreno della servitù, quest’ultima però tratteggiata sempre con rispetto, al pari della famiglia Crawley. Nei quasi 130 minuti della storia, l’autore riesce con astuzia a dare spazio a ciascun personaggio, sottraendosi dall’inciampo della macchietta o del facile narrativo. Anzi, compone un copione agile, fluido, puntellato da ironia brillante (sempre irresistibili le battute di Lady Violet/Maggie Smith, da applausi!), sbilanciato verso una colta e raffinata evasione, senza rinunciare però a raccordi tematici di matrice storica o a approfondimenti valoriali di senso. La sceneggiatura risulta uno spartito di temi ed emozioni di respiro familiare. C’è tutto: gioia, allegria, amore, complicità, solidarietà, dedizione, dolore, distacco, e diffusa tenerezza.
“Downton Abbey. Una nuova era” si conferma pertanto puro e intelligente godimento, in primis per gli appassionati, che ritrovano anche tutto l’incanto di scenografie, costumi e acconciature impeccabili nella chiara tradizione britannica, ma capace di suscitare liete emozioni anche nei nuovi spettatori che vi si accostano. Nell’insieme, “Downton Abbey. Una nuova era” è consigliabile, brillante e per dibattiti.
“Anatomia di uno scandalo” (Netflix)
Tra i punti di contatto con il film “Downton Abbey” ci sono l’upper class inglese e la stessa protagonista Michelle Dockery (Lady Mary). Parliamo della miniserie evento “Anatomia di uno scandalo” (“Anatomy of a Scandal”), tra i titoli più visti ad aprile sulla piattaforma Netflix. Diretta dalla regista S.J. Clarkson e firmata dallo sceneggiatore-produttore di successo David E. Kelley, autore dei riusciti “Big Little Lies”, “The Undoing” e “Nine Perfect Strangers”, la serie “Anatomia di uno scandalo” prende le mosse dal romanzo omonimo di Sarah Vaughan.
La storia. Londra oggi, James Whitehouse (Rupert Friend) è un ministro del governo inglese, sposato da tempo con Sophie (Sienna Miller), sua compagna di università a Oxford. La coppia ha due bambini piccoli. In procinto di varare un’importante riforma per il governo, James Whitehouse viene citato in giudizio dall’ex collaboratrice parlamentare Olivia Lytton (Naomi Scott), che lo accusa di violenza sessuale, avvenuta proprio nel Palazzo di Westminster. A difendere in tribunale la donna è l’avvocato di successo Kate Woodcroft (la Dockery), una stacanovista del lavoro. Il dibattimento in aula provoca non pochi scossoni nella famiglia Whitehouse ma anche nella politica del Paese…
“Anatomia di uno scandalo” è una serie in sei episodi che fonde il legal drama con il thriller psicologico. Due i binari del racconto: da un lato le dinamiche del legal, la gestione dell’accusa e delle testimonianze in aula, in cerca della verità, se James Whitehouse sia o meno colpevole delle violenze; dall’altro il dramma enigmatico tra le stanze della mente dei protagonisti, il richiamo agli anni universitari a Oxford.
A ben vedere, la serie sposa maggiormente lo sguardo femminile, la dimensione introspettiva dei personaggi di Sophie Whitehouse e Kate Woodcroft. Nello specifico, la prima è tormentata dall’idea che il marito, il padre dei suoi figli, sia colpevole, lui che ha quell’aspetto così gentile, dai modi sofisticati e distinti. La seconda dal canto suo non sembra avere alcuna esitazione, consapevole delle storture del mondo odierno, della spregiudicatezza di violenze commesse sulle donne in ambito formativo, familiare e lavorativo. Inoltre, su Kate pesa anche un ingombrante passato che piano piano viene a galla, rischiando di inficiare la linea dell’accusa.
Si entra nelle pieghe della storia di “Anatomia di uno scandalo” con la sinuosa eleganza di un valzer, un gioco delle ambiguità del tutto riuscito e magnetico, compatto per la maggior parte degli episodi, rischiando qualche scricchiolio nei volteggi finali (zavorrati da insistiti flashback). Laddove la sceneggiatura presenta qualche incertezza, le interpretazioni di Michelle Dockery, Rupert Friend (l’indimenticato Peter Quinn in “Homeland”) e Sienna Miller riescono a mantenere saldo l’impianto del racconto e la sua intensità. Nell’insieme “Anatomia di uno scandalo” è una miniserie valida, dall’adeguato approfondimento tematico e psicologico. Serie complessa, problematica e per dibattiti.