“Oggi il cibo torna sicuramente ad essere centrale in termini di visione economica e sociale. Innanzitutto per garantire alle popolazioni che non mancherà mai anche perché, non dobbiamo dimenticarcelo, nelle primavere arabe fu proprio la carenza o l’assenza di cibo a scatenare la reazione delle popolazioni. Mai come ora siamo consapevoli che l’agricoltura e il cibo sono centrali per le dinamiche di geopolitica e l’Italia, che ha il maggior patrimonio di biodiversità, non può che avere un ruolo importante nel prossimo futuro”.
Ne è convinto Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, che con il Sir analizza come il comparto agricolo e agroalimentare italiano abbia reagito alle ricadute dell’invasione russa dell’Ucraina.
Presidente, dopo quasi due mesi di guerra, qual è dal vostro punto di vista la situazione?
Inizierei col dire che è proprio l’importanza del cibo che oggi viene riscoperta a causa del conflitto bellico. Ce lo confermano i confronti e le relazioni che abbiamo con persone che operano sul terreno e che vanno sempre elogiate per l’attività di supporto alle popolazioni che ancora oggi sono in situazioni di fortissima difficoltà.
Il paradosso è che tutti parlano delle armi che vengono inviate in Ucraina e nessuno del bisogno che le popolazioni hanno di cibo.
Un problema che abbiamo temuto potesse in qualche modo coinvolgerci, soprattutto per la possibile carenza di alcune materie prime…
Rispetto alle visioni politico-strategiche relative al cibo, l’Europa è arrivata con un po’ di ritardo: paradossalmente per anni si è incentivata la non lavorazione del suolo agricolo.
Oggi a livello comunitario vengono messi a disposizione, solo per un anno, i 4 milioni di ettari lasciati a riposo, di cui 200mila riguardano l’Italia. Auspichiamo che possano essere utilizzati anche negli anni a venire per arrivare ad una forma di autosufficienza produttiva che sempre più deve interessare il livello europeo.
Ci siamo vicini, al di là di quello che viene raccontato: per quanto riguarda il mais, per esempio, in Europa si produce il 93% del fabbisogno comunitario e con l’iniezione di queste superfici si può tranquillamente arrivare alla piena sufficienza senza derogare a quei principi di qualità del cibo prodotto e coltivato che in queste ore sembrano appassionare buona parte della politica europea e nazionale. Non vorremmo che, di fronte ad un momento sicuramente drammatico, ci sia chi cerca di avvantaggiarsi negli scambi commerciali abbassando la qualità dei prodotti.
A che punto è il nostro Paese su questi due fattori?
L’Italia si contraddistingue sulla qualità dei propri prodotti, aspetto che è una sicurezza per i propri cittadini/consumatori. C’è poi il tema di ciò che nel nostro Paese è fattibile, e siamo convinti che di soluzioni ce ne siano, per arrivare in modo considerevole ad aumentare la capacità produttiva italiana.
Con quali costi per gli agricoltori e i consumatori?
L’aumento dei prezzi è generato principalmente dai costi energetici, per via di dinamiche mondiali nelle quali, siamo convinti, ci siano delle speculazioni in atto. Come è successo dopo qualche settimana dall’inizio dello scontro bellico sul fronte cerealicolo quando l’Ungheria tentò di bloccare le esportazioni di cereali già contrattualizzate per una logica speculativa con la quale si è tentato di creare tensione sul mercato per far aumentare i prezzi. E quando questo avviene va a discapito del cittadino/consumatore. Fortunatamente si è riusciti ad intervenire per bloccare quell’operazione e non abbiamo visto fortunatamente un’ulteriore tensione sul comparto cerealicolo.
Rispetto alle materie prime che come Italia acquistiamo in Ucraina e Russia come siamo messi?
Non siamo grandi importatori di cereali da Ucraina e Russia. Di grano duro e tenero importiamo dal 4 al 5% del nostro fabbisogno, per quanto riguarda il mais arriviamo al 18%. Ma non possiamo dimenticare che altri Paesi – dall’Egitto alla Tunisia, dal Libano alla Libia – sono grandi importatori di cereali dalle due nazioni in conflitto e situazioni di preoccupazione possono essere generate, con tensioni che se nascessero si ripercuoterebbero su tutti.
Bisogna lavorare per diventare autosufficienti, anche come sistema italiano,
investendo su ricerca e bacini di accumulo – che potrebbero portarci a contenere il 50% di acqua piovana; vorrebbe dire triplicare le rese per superficie e per tante filiere, soprattutto quelle di carattere cerealicolo, significherebbe passare dall’essere importatori all’essere autosufficienti.
Quasi 56mila giovani in Italia hanno scelto di costruirsi un futuro da imprenditori agricoli. Che segnale è in questo frangente storico?
Per anni avevamo visto l’abbandono o l’allontanamento delle nuove generazioni dal comparto agricolo. Oggi c’è un ritorno dei giovani che – più attenti rispetto alle dinamiche legate all’ambiente, alla qualità della vita – vedono nell’agricoltura la possibilità di soddisfare e realizzare i propri sogni. È significativo un dato:
i giovani che guidano imprese agricole riescono ad avere sulla base di pari superficie lavorata un aumento in termini di fatturazione del 75% rispetto alle imprese agricole tradizionali.
Questo è dovuto al grande apporto in termini di innovazione, conoscenza dei mercati, impegno per l’export, trasformazione dei prodotti per offrirli ai consumatori… I giovani sono un soggetto centrale per lo sviluppo del futuro.
In questa fase storica qual è lo stato d’animo prevalente? Preoccupazione, attesa, fiducia?
Nonostante le difficoltà, vogliamo comunque essere ottimisti perché riteniamo che l’agricoltura e il cibo possono essere elementi di crescita economica e valoriale. Sta a noi difendere il ricco patrimonio di biodiversità e gli standard qualitativi che qualcuno, all’interno dell’Ue, ha cercato di abbassare per via del momento di criticità congiunturale. Secondo il principio di reciprocità, dobbiamo batterci per standard qualitativi di ciò che importiamo siano equiparabili al lavoro fatto dalle nostre imprese. E, contestualmente, dobbiamo cercare di realizzare, anche grazie alla ricerca, una maggior capacità produttiva; ad esempio con cisgenetica e Nbt che ci metterebbero nella condizione di dare risposte significative anche al tema dei cambiamenti climatici.
Sono ottimista per il ruolo che l’agricoltura e l’agroalimentare potranno avere nel prossimo futuro, anche se non sono da sottovalutare le difficoltà che ricadono sui nuclei familiari gravati non solo dall’aumento dei costi di prodotti o generi agroalimentari ma soprattutto dai prezzi delle risorse energetiche e dal forte aumento dell’inflazione.
Qual è la priorità che chiede alle istituzioni italiane ed europee di affrontare?
Sicuramente dobbiamo tornare ad avere una politica di medio-lungo periodo relativa all’autosufficienza di carattere energetico a livello comunitario. Ci sono ancora troppi egoismi all’interno del contesto europeo. Iniziare dal tema energetico ci sembra doveroso. Subito dopo c’è la questione dell’autosufficienza dei comparti agroalimentari abbandonando la logica dello sfruttamento della manodopera nei Paesi più poveri e alla delocalizzazione. Una strategia che ha prodotto l’arricchimento di pochissimi a discapito di intere popolazioni.