Verso il senso perduto

In questi drammatici momenti di timore non solo e non tanto per noi stessi, ma per quante madri, quanti bambini (le ultime notizie ci parlano di oltre cinque milioni) si trovano improvvisazione senza casa, cibo e patria, c’è qualcosa che può aiutarci a capire quanto sia antico questo timore e quanto il rapporto con l’Altro abbia contribuito anche a proporre soluzioni, e l’esempio di Francesco che va subito a proporsi come mediatore senza tanti attendismi e politicismi ne è davvero la prova provata

(Foto ANSA/SIR)

In questi drammatici momenti di timore non solo e non tanto per noi stessi, ma per quante madri, quanti bambini (le ultime notizie ci parlano di oltre cinque milioni) si trovano improvvisazione senza casa, cibo e patria, c’è qualcosa che può aiutarci a capire quanto sia antico questo timore e quanto il rapporto con l’Altro abbia contribuito anche a proporre soluzioni, e l’esempio di Francesco che va subito a proporsi come mediatore senza tanti attendismi e politicismi ne è davvero la prova provata.

La lettura dei Salmi, ad esempio, ci insegna, e Italo Calvino lo sapeva bene, che ogni rilettura è in realtà la lettura di un nuovo libro. Come ci permette di sperimentare la riedizione di “I canti nuovi. I Salmi” (David Maria Turoldo, Gianfranco Ravasi, San Paolo, 733 pagine, 28 euro), che aveva visto la luce nel 1987 con il titolo, davvero “suggestivo ed evocativo”, come scrive nella presentazione Gianfranco Ravasi, di “Lungo i fiumi”. Il commosso ricordo di Turoldo da parte di Ravasi apre la strada del cammino nella speranza e nella fede che offre sempre nuove possibilità di senso. E non è un caso che nella introduzione emerga non solo il grande teologo e mistico Evdokimov, ma anche un nome inaspettato come quello di Nietzsche, che aveva riconosciuto la grande potenza fascinatoria del Salmi. Essi hanno attraversato trasversalmente la cultura, e non solo, di tutto il pianeta e di ogni epoca. Perché ogni volta che li si rilegge, grazie al commento, alla dossologia, alle preghiere ad essi ispirate qui presenti, sembra non averli mai letti prima, in quanto riescono a entrare nel tempo, o forse sarebbe meglio dire che il tempo sembra tornare all’origine perduta per quel solo attimo della lettura che vale quasi quanto uno sprofondamento nel senso ultimo delle cose. Sia nella testimonianza di Ravasi che nelle parole del frate servita emerge un elemento antico che però, nella dimenticanza in cui era stato gettato, oggi assume il volto di una epifania: il ritorno all’umiltà e alla povertà di spirito. E giustamente Ravasi riporta in conclusione le illuminanti parole di un grande poeta, Mario Luzi, che nella svolta stilistica di Turoldo aveva intuito “il progressivo ritrarsi dell’eloquenza addosso al nocciolo delle cose”. Ci voleva un poeta per avvicinarsi all’ineffabile, e d’altronde qui stiamo parlando di Poesia, quella che nel Salmo 70 anche da queste pagine chiede a Dio la liberazione dal sogghigno di quanti credono che nella padronanza della chiacchiera e delle vuote forme, compreso “il gracchiare di teologie inutili” si nasconda la demoniaca via verso la superiorità e l’idolatria di sé.

 

Questa ricerca dell’essenzialità, dell’umile abbandono di una sapienza che talvolta nasconde il cedimento ad un molteplice senza più centro – e senso – ritorna anche in un libro di Giulio Busi, esperto di mistica ebraica, dal titolo già di per sé affascinante: “Uno. Il battito invisibile” (Il Mulino, 156 pagine, 13 euro). L’autore ricostruisce il lungo cammino dello spirito verso l’inesprimibile, l’ineffabile, il non-toccato dai sensi umani, con il lento distacco dall’antropomorfismo politeistico verso qualcosa che toccasse il senso stesso del suono e del silenzio, della luce e del buio: l’Uno. Abramo e Mosè, il Simposio, e Plotino, fino alle vertiginose cime delle “Elegie duinesi” di Rilke e alla rivelazione del divino attraverso il contatto, non ideale, ma fisico con la natura: lo stesso atto, al di fuori di quelle che potrebbero apparire suggestioni, seppure nobili, personali, che viene raccomandato dalla terapia della natura che sta prendendo piede anche da noi e che prescrive la cura della psiche attraverso il contatto con il creato; per non parlare della grande esperienza del Cantico francescano, condivisa e amata in un contesto interreligioso. Affascinante qui il discorso sull’amore umano che viene visto come ritorno ad una unità perduta attraverso il grande viaggio nella vita e nelle sue (apparenti?) contraddizioni, come condivisione nel qui e nell’ora. La dimensione laica e quella del credente si incontrano nella coscienza di una bellezza nascosta in un tutto che viene chiamata attraverso molteplici nomi come amore, dolore, astio, vicinanza, lontananza, desiderio, sessualità, rinuncia. E molto giustamente Busi mette in evidenza come nella dimensione della ricerca dell’Uno nell’amore si nasconda l’imprevedibile paura di quella unione che ne nasconde l’abissale divino segreto. L’Uno e il suo fascino indicibile e talvolta, per noi, contraddittorio nella sua prossimità con la sua apparente negazione, il Nulla, arriva fino alla musica, alla sua tangenza con il silenzio assoluto, a John Cage, perfino ai Beach Boys di “Good vibrations”, anche se con qualche sbavatura: le Buone Vibrazioni non sono mai state un Lp, ma un singolo che ha fatto epoca, compreso, nel 1967, in Smiley Smile. E, a proposito dell’amore-morte, vista l’enunciata fascinazione di Rilke e la giusta allusione al mito di Orfeo e Euridice non sarebbe stato inopportuno citare un altro Rilke, quello dei “Sonetti a Orfeo”: qui il magico cantore si volta – perdendo per sempre la sua Euridice – non perché non sa trattenersi, ma perché intuisce che quelle leggi non possono essere infrante, che lei “era radice, ormai”. “Lei” non era più Euridice, non quella conosciuta in vita almeno; ed infatti quando Hermes le dice che Orfeo si è girato, lei “non comprese e disse piano: Chi?”. Il cammino verso l’Uno cela l’accettazione del mistero e di quella inesprimibile fede nel Senso ultimo di ogni cosa.

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