Pier Paolo Pasolini e quella nostalgia d’assoluto

Luci ed ombre, nella vita privata di Pasolini - ma anche nella sua intuizione della massificazione e vendita del corpo in una società globalizzata e colonizzata economicamente - e nella sua concezione nostalgica di un proletariato (forse sarebbe meglio dire sottoproletariato) da contrapporre ad una sinistra impelagata in dibattiti ideologici e in un prospettivismo senza realtà, tutto sommato borghese e perbenista. Spietato contro i luoghi comuni, ma, fino alla completa radicalizzazione della sua negatività negli ultimi film, memore di una possibilità di redenzione non solo nel qui e nell’ora

(Foto ANSA/SIR)

Il grido dell’uomo nel deserto di “Teorema”, la ambigua presenza del sacro nel film e subito dopo nel romanzo, sono il ritorno del e al misticismo? Pier Pasolini a cento anni dalla sua nascita sembra porre – e porsi-  ancora questa domanda. Al di là delle dichiarazioni di antica cattolicità, quella della gioventù friulana, “tradita” dalla commistione tra Chiesa, politica, modernità (che non era un complimento per lui) ai tempi della “Religione del mio tempo”, non possiamo fare a meno di notare come in quello stesso 1961 l’autore di “L’usignolo della chiesa cattolica” (1958) intraprende un viaggio in India con Alberto Moravia e Elsa Morante, durante il quale a catturarlo è l’asciutta, totale dedizione ai sofferenti di madre, oggi santa, Teresa di Calcutta: e qui, in un senso di radicale sprofondamento nel male – la malattia e il sospetto dell’assenza di Dio – che diviene bene, che sarà una costante del pensiero pasoliniano, quel nulla che per il borghese, anche quello sedicente di sinistra, è noia e tedio, diviene la scommessa vincente per Teresa, perché “come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perché cominciano dal nulla”.

È quel niente filosofico d’occidente che diviene la spada metaforica di una donna che ha rinunciato a tutto, avvicinandosi non solo alla radicalità dell’esempio di Cristo, ma a quell’oriente che Pasolini in quegli stessi anni andava configurando nei suoi viaggi, e in “Alì dagli occhi azzurri”,  come possibile alternativa al consumismo e al materialismo compulsivo.

Il suo sguardo nostalgico, forse nella speranza di un “futuro ricordato”, come avrebbe scritto qualche anno dopo Harold Fisch, sta tutto nella dedica a Giovanni XXIII del suo film “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), in cui precipitavano icone non solo della cinematografia, visto che gran parte degli attori non erano professionisti (la Madonna anziana era impersonata dalla mamma Susanna, che in quel dolore dovette rivivere quello per la tragica morte del figlio Guido in uno scontro tra partigiani politicamente rivali), ma geopolitiche, visto che il film fu girato tra i Sassi di Matera e anche in altri luoghi del Mezzogiorno, e che Enrique Irazoqui, nella parte del Cristo, fu doppiato da Enrico Maria Salerno, oltre al fatto che a recitare furono chiamati scrittori e filosofi come Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto, Giorgio Agamben.

Luci ed ombre, nella vita privata di Pasolini – ma anche nella sua intuizione della massificazione e vendita del corpo in una società globalizzata e colonizzata economicamente – e nella sua concezione nostalgica di un proletariato (forse sarebbe meglio dire sottoproletariato) da contrapporre ad una sinistra impelagata in dibattiti ideologici e in un prospettivismo senza realtà, tutto sommato borghese e perbenista.

Spietato contro i luoghi comuni, ma, fino alla completa radicalizzazione della sua negatività negli ultimi film, memore di una possibilità di redenzione non solo nel qui e nell’ora.

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