Fine vita. Antonelli (Policlinico Gemelli), “quando le cure diventano futili, il paziente non si abbandona”

Massimo Antonelli, primario del reparto di rianimazione del Policlinico Gemelli, a Roma, spiega che cosa significa “trattamento sanitario di sostegno vitale”: "Dove non è più possibile, attraverso i mezzi farmacologici o artificiali, sostenere le funzioni vitali, il compito del medico è alleviare le sofferenze, arrivando anche a una sedazione palliativa"

Foto Calvarese/SIR

“Quando le cure sono futili e sproporzionate vanno sospese, ma il paziente non va mai abbandonato ma protetto e accompagnato. Alla luce del patto tra medico e paziente che è il fondamento di questo rapporto, fino all’ultimo momento”. Lo dice al Sir Massimo Antonelli, primario del reparto di rianimazione del Policlinico Gemelli, a Roma, in una intervista in cui precisa cosa significa realmente e concretamente “trattamento sanitario di sostegno vitale”. Uno dei punti controversi nella proposta di legge sul fine vita a firma di Alfredo Bazoli, nei prossimi giorni all’esame della Camera.

Cos’è un trattamento sanitario di sostegno vitale?
In realtà, ciò che dice la terminologia stessa, cioè un trattamento artificiale attraverso il quale è possibile mantenere le funzioni vitali. Ad esempio, nel caso di insufficienza respiratoria noi ci troviamo a dover supplire alle necessità del paziente attraverso un ventilatore meccanico, che è una macchina che si sostituisce alla funzione polmonare consentendo la ventilazione. Oppure, in caso di un serio deficit della funzione renale si ricorre alla dialisi, nelle varie forme, continua o intermittente. O ancora, nel caso di insufficienza cardiocircolatoria, si può intervenire farmacologicamente con farmaci atti a sostenere la pressione sanguigna e il circolo o con macchine e apparati esterni come la circolazione extracorporea che ha la funzione di poter integrare e sostenere il cuore.

Perché questi trattamenti sono fondamentali e non costituiscono un accanimento terapeutico?
Il confine tra ciò che è accanimento e ciò che non lo è non è legato al mezzo che si utilizza per sostenere le funzioni vitali, ma alla proporzionalità di questi sostegni rispetto alle possibilità e alle aspettative cliniche del paziente. In altri termini, posso anche iniziare un trattamento con la ventilazione meccanica o con l’assistenza circolatoria extracorporea. Tuttavia se le funzioni vitali dell’organismo non tendono a recuperare – quindi gradualmente riguadagnando d’autonomia -, l’applicazione di queste metodiche diviene inevitabilmente futile. In quel caso – ma solo in quel caso -, quando non c’è oggettivamente una possibilità di recupero, ciò che è sostegno si potrebbe trasformare in una forma di “accanimento”, o meglio in una cura sproporzionata, inefficace e senza possibilità o prospettive di successo, perciò inutile.

Il dibattito sui temi del fine vita è molto vivace. Restando sull’aspetto medico, in quest’ottica esercitare trattamenti di questo genere come si può considerare?
Nel trattamento di fine vita, laddove non è più possibile attraverso i mezzi farmacologici o artificiali sostenere le funzioni vitali, il compito del medico, come è previsto nel giuramento di Ippocrate, è alleviare le sofferenze. In altri termini, poter arrivare anche a una sedazione palliativa, quando la possibilità di riuscire a risolvere il quadro clinico non c’è, e l’unica cosa che possiamo fare è proteggere la dignità del paziente, accompagnandolo ed evitando ogni forma di sofferenza possibile e inutile. Questo è totalmente diverso dall’eutanasia, dove bisognerebbe compiere un’azione attiva da parte del medico atta a interrompere la vita. Come sappiamo bene, in Italia non è legal e consentita, e contraddice il nostro giuramento medico. Altra cosa ancora è il cosiddetto suicidio assistito dove il medico o l’operatore sanitario sarebbero chiamati a coadiuvare il paziente nell’autosomministrazione di sostanze letali. Anche questa azione si configura come contraria ad un principio medico.

Qual è l’importanza delle cure palliative?
Sono il percorso che bisogna garantire ai pazienti laddove non c’è opportunità e prospettiva di cura. Si fa molta confusione ancora oggi tra la cosiddetta ‘desistenza terapeutica’, cioè evitare o sospendere cure inutili e futili, non proporzionate alla aspettative e l’eutanasia, che è invece un atto attivo volto a causare la morte. Nel gergo comune e soprattutto nella non precisa identificazione della situazione e della terminologia, molte persone confondono. Questo è un grave errore, perché le due cose sono totalmente diverse e opposte.

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