In questi ultimi mesi sono saliti agli onori della cronaca pesarese, episodi di devianza minorile in diverse città, che hanno come protagonisti non solo adolescenti, ma anche bambini.
Questi comportamenti appaiono accomunati da una stessa matrice motivazionale, ovvero quella della spinta a delinquere e a farlo non singolarmente, ma sempre attraverso un ristretto gruppo che possiede al vertice un leader, spesso con un’età di poco superiore dei restanti membri. E gli obiettivi di tali azioni possono mirare non solo al danneggiamento di cose di ordine pubblico, ma anche a furti, fino all’infastidire e in alcuni casi aggredire e rapinare persone indifese.
Quanto detto, seppur in forma sintetica, può rappresentare un profilo comportamentale, che delinea il fenomeno delle cosiddette ‘baby gang’ o bande giovanili. Una definizione che, come afferma lo psichiatra Vittorino Andreoli, appare paradossale perché “vuol dire legare il bambino a un comportamento criminale”. Ma forse tale antinomia terminologica può avere senso se inserita all’interno dell’attuale contesto sociale, che sembra aver confuso nel corso del tempo, una chiara differenziazione tra mondo adulto e mondo infantile/adolescenziale.
Per dirla con le parole del sociologo Zygmunt Bauman, una ‘società liquida’ nei suoi legami relazionali. E il fenomeno delle baby gang si innesta dentro questo terreno e, per tale motivo, la sua comprensione deve essere ricondotta ad una sfera psicologica individuale e famigliare, inserita all’interno di un quadro che comprenda anche quella sociale, mediatica e valoriale.
Papa Francesco afferma infatti che “la gioventù non è un oggetto che può essere analizzato in termini astratti. In realtà “la gioventù” non esiste, esistono i giovani con le loro vite concrete. Nel mondo di oggi, pieno di progressi, tante di queste vite sono esposte alla sofferenza e alla manipolazione” (Christus vivit 71).
Le parole di Francesco vanno dritte al cuore del problema e ci aiutano ad andare oltre le analisi teoriche di un fenomeno così complesso e drammatico.
Il Papa parla di ‘vite esposte’, come quelle di minori che portano dentro di sé fragilità di ogni tipo (emotivo/affettive, educative).
Fragilità che nella crescita interiore e relazionale lasciano il bambino carente nello sviluppo della conoscenza di sé, necessaria per orientare con autonomia e consapevolezza le proprie azioni verso il mondo esterno. È come se il bambino non avesse acquisito la capacità di abitare pienamente il proprio corpo e, non percependone i ‘confini’, si ritrova aperto, esposto alla manipolazione e all’istintività dell’azione trasgressiva. ‘Vite che sono esposte alla manipolazione’ perché orfane di quello sguardo genitoriale-adulto che infonde integrità al vissuto dei figli. La mancanza dell’essere stato riconosciuto e visto nella propria unicità, può indurre allora alla mancanza di riconoscimento del valore dell’altro. Ed è così che le condotte che apparentemente sembrano prive di senso trovano in tale ferita la loro genesi.
Pertanto, se il significato di tali comportamenti ha in sé una matrice relazionale ferita, l’opera di risanamento deve passare non solo dalla mano degli esperti e delle istituzioni, ma anche da costanti e mirate azioni di educazione alla genitorialità.
* Psicologo-psicoterapeuta