La crisi dei partiti nasce soprattutto dalla mancanza di una reale disponibilità al confronto con la società civile. Un confronto autentico, non strumentale. È questo uno dei messaggi validi per l’oggi che si possono ricavare dalla lettura del nuovo libro di Paolo Pombeni, storico e analista politico tra i più autorevoli: “L’apertura. L’Italia e il centrosinistra (1953-1963)”. “Allora – dice al Sir Pombeni riferendosi agli anni approfonditi nel volume edito da “Il Mulino” – c’era un’interazione molto forte con il retroterra sociale e culturale. Oggi i partiti sembrano interessati a cercare persone che contribuiscano al teatrino delle maschere più che a un dialogo effettivo con i mondi esterni. Non c’è afflato di pensiero”.
“Paradossalmente – aggiunge lo studioso – i partiti di allora erano agevolati dall’avere un consenso solido che consentiva loro di avere più coraggio. Oggi i partiti appaiono terrorizzati dalla volatilità elettorale e cercano affannosamente di comporre un puzzle mettendo insieme pezzetti di consenso”.
Nel linguaggio corrente con il termine “centrosinistra” si identifica semplicemente uno degli schieramenti elettorali e parlamentari. Ma che cosa ha significato, invece, l’esperienza del centrosinistra storico nella vicenda politica del nostro Paese?
È stato soprattutto un modo diverso di approcciarsi al problema della modernizzazione del Paese. Nel 1951 il prodotto interno lordo era tornato ai livelli di prima della guerra e dopo la fase della ricostruzione si assisteva a uno sviluppo molto ampio e intenso che avrebbe avuto ripercussioni non solo in ambito economico, ma anche sociale e antropologico. Fino al 1953-1954 era sembrato che fosse possibile gestire politicamente questo processo basandosi sulla classica alleanza centrista costruita da De Gasperi, ma presto ci si rese conto che non era una prospettiva realistica. Tra le forze in campo c’era una componente liberale estremamente conservatrice che non accettava il cambiamento in atto e si illudeva di poterlo fermare, trovando sponde nella componente conservatrice della Dc. Ma gli altri partiti dell’esperienza centrista erano troppo piccoli per costruire con la Dc un’alleanza in grado di affrontare un processo economico-sociale di tale portata e divenne inevitabile guardare verso i socialisti come peraltro avveniva anche in altri Paesi europei. Rispetto al Psi sussisteva però il problema dei forti legami con il Partito comunista. La crisi del 1956 per i fatti dell’Ungheria diede modo ai socialisti di distinguersi dal Pci e l’opportunità venne colta dalla componente più progressista della Dc. Si crearono così le condizioni per un incontro tra il progressismo cattolico e quello laico-socialista.
Come tutti i processi storici, anche la vicenda del centrosinistra a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta contiene elementi relativi a quello specifico contesto e altri che invece ci aiutano a comprendere meglio anche le difficoltà del momento attuale. Quali sono i principali?
Direi innanzitutto che la politica non può non tener conto dei cambiamenti sociali. E questo atteggiamento esclude sia l’utopia delle fughe in avanti, sia l’utopia reazionaria di chi pensa che possa restare tutto fermo com’è. Inoltre, se in quella vicenda fu decisivo il ruolo di alcune personalità come Moro, Fanfani, Nenni, fu di grande rilevanza anche la presenza intorno ai partiti di tutto un mondo capace di esprimere la spinta della società civile. Penso ad esempio al contributo delle riviste: nel libro cito più volte “Il Mulino” perché sono stato coinvolto personalmente, ma si potrebbero fare molti altri esempi. Ancora, bisogna saper valutare la vischiosità del passato e fare i conti con essa. Ci sono voluti dieci anni perché il centrosinistra si affermasse. Sul versante del Psi pesava il retaggio di un forte anticlericalismo, mentre una parte delle gerarchie cattoliche viveva quella che poi sarebbe stata chiamata secolarizzazione come l’incombere del laicismo.
Nelle prime pagine del suo libro viene descritto il tentativo fallito di superare la prima crisi del centrismo attraverso il cambio della legge elettorale, nel 1953. Quella che fu ingiustamente definita “legge truffa” e che era semplicemente una legge maggioritaria. Un tema di grande attualità…
Non era una truffa, piuttosto – se vogliamo usare un’altra espressione colorita – era una “furbata” perché quella centrista era l’unica coalizione che poteva realisticamente puntare a conquistate il premio di maggioranza. Sappiamo invece com’è andata. Resta sempre un errore cercare di forzare la realtà costringendo i partiti a stare insieme solo per calcolo elettorale. Il sistema maggioritario, inoltre, per funzionare bene ha bisogno di due schieramenti che si riconoscano reciprocamente legittimati a governare. Per questo, in una fase di grandi tensioni come quella attuale sarebbe bene puntare su un sistema elettorale proporzionale ben temperato, con una soglia di sbarramento almeno del 5% per far emergere le componenti “vere”. Si vedrà poi chi è in grado di collaborare e con chi, sulla base di identità e di programmi chiari.