La recente pubblicazione dell’ultimo numero dei Quaderni di Scienza & Vita, col titolo “Cannabis, pro e contro. Consumo, regolamentazione, proibizione“, rappresenta un’occasione propizia per focalizzare l’attenzione sul tema della legalizzazione della cannabis (e dei suoi derivati) in Italia. Non si tratta qui di riflettere su una pura possibilità teorica, bensì di sviluppare una posizione ragionata alla luce di concrete e attuali iniziative legislative e referendarie orientate in tal senso.
A tal fine, riteniamo indispensabile rifuggire da ogni pregiudizio di stampo “ideologico”, volgendo invece lo sguardo e l’analisi ai dati oggettivi disponibili che descrivono il fenomeno in atto.
Ad oggi, il mercato della cannabis in Italia è proibito in base alla vigente disciplina in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope (Dpr n.309/1990, testo unico sugli stupefacenti), che prevede come reato le condotte di coltivazione, produzione, importazione, vendita, cessione e detenzione — non finalizzata all’uso personale — di sostanze stupefacenti.
Chi sostiene l’opportunità di legalizzare (in varie forme) l’uso e il mercato di cannabis dà ragione della propria posizione basandosi fondamentalmente su tre assunti espliciti: per questa via, si contribuirebbe all’efficientamento del sistema penale, al contrasto al crimine organizzato e, più in generale, alla riduzione dei reati. Ma è davvero così? Cosa è accaduto nei Paesi che hanno già adottato questo indirizzo normativo? I dati disponibili sono alquanto incerti e frammentari, sicuramente insufficienti a delineare un quadro definitivo. Tuttavia, le analisi svolte da vari studiosi mettono in evidenza come, ad ovvi e limitati benefici a breve termine (diminuzione reati, parziale sottrazione del mercato cannabis al traffico criminale, riduzione carcerazioni), si contrappongono importanti costi sociali (danni alla salute, aumento del consumo della sostanza, aumento della potenza della sostanza in commercio) nel medio e lungo termine. Dunque, è bene essere intellettualmente onesti e non millantare per certi benefici che, in realtà, sono solo ipotetici.
Peraltro, queste supposizioni – come già detto, tutte da verificare – lasciano di frequente trasparire almeno altri due convincimenti di base, spesso non esplicitati e dati per scontati da parte di chi propone la legalizzazione della cannabis.
Il primo riguarda la presa d’atto – dati alla mano – del fenomeno crescente del consumo di cannabis, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani: molti dei sostenitori della legalizzazione si limitano a constatarne l’esistenza, sottolineando la necessità di una sua regolamentazione da parte dello Stato, per evitare gli effetti sociali nocivi ad esso correlati. Si tratta, evidentemente, di un tipico approccio libertaristico, ben attento a non impantanarsi in analisi etiche o sociologiche, orientato a favore del primato quasi assoluto delle libere scelte individuali, anche se potenzialmente dannose; in quest’ottica, di fronte al fenomeno “cannabis” (o altre sostanze o dipendenze), la comunità civica – rappresentata dal legislatore – dovrebbe rinunciare a indicare orientamenti valoriali comuni (che restano in carico al singolo individuo) e limitarsi a “regolamentare” l’esistente per limitarne i danni. Ma esiste anche un’altra visione comunitaria, per cui la società dovrebbe individuare e perseguire alcuni valori essenziali comuni, presentandoli alle generazioni che crescono come punti di riferimento, anche attraverso la “direzione” delle norme che regolano la vita comune. Limitarsi a legalizzare un fenomeno esistente – in questo caso, l’uso della cannabis – senza alcuna connotazione valoriale, inevitabilmente assumerebbe anche una valenza (dis-) educativa, suggerendo il messaggio: ciò che è legale, in qualche modo è anche “buono” (o perlomeno non è poi così “cattivo”).
Il secondo presupposto, più specifico, riguarda il superficiale convincimento che la cannabis (e i suoi derivati), in quanto “droga leggera”, in fondo non fa poi così male alla salute, basta non esagerare nel consumo. Purtroppo, i più aggiornati ed acclarati dati scientifici smentiscono clamorosamente questo luogo comune, mostrando come le sostanze psicoattive in essa contenute sono effettivamente in grado di procurare importanti danni al sistema nervoso centrale, in particolare ad un cervello in fase evolutiva (tipico dell’adolescenza), rendendolo più vulnerabile allo stress ed esposto all’insorgenza di disturbi mentali, fino ad una potenziale diminuzione del quoziente intellettivo.
Insomma, ce n’è abbastanza per impegnarsi a non incentivare – anche indirettamente – il consumo di tali sostanze, soprattutto negli adolescenti e nei giovani. Probabilmente, più che profondere energie per approntare dispositivi normativi orientati alla legalizzazione della cannabis, la nostra società dovrebbe preoccuparsi e ingegnarsi molto di più per trovare risposte costruttive e globali al crescente disagio giovanile, che sempre più spesso esita nella cosiddetta “cultura dello sballo”, nelle sue varie espressioni, tra cui il ricorso a sostanze stupefacenti. Ascolto, disponibilità, assunzione responsabile dei propri ruoli: questi gli irrinunciabili ingredienti che gli adulti devono rimettere in gioco nella relazione educativa, perché chi cresce, affacciandosi pienamente alla vita matura, non debba sentirsi spinto alla ricerca di dannosi quanto illusori “surrogati di vitalità”. A cominciare dalla cannabis.