La rottura c’è e sarà lunga la strada per la riconciliazione. La pandemia ha inasprito i contrasti fra due ali della società: chi approva i vaccini e chi no. Anche la vicenda che riguarda il piccolo di due anni, affetto da cardiopatia, in attesa di un intervento chirurgico, ma per il quale i genitori richiedono una trasfusione di sangue solo da persone non vaccinate contro il Covid, è la dimostrazione che qualcosa si è infranto. Secondo Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma, “È evidente il mancato riconoscimento delle competenze, delle differenze e delle gerarchie sociali”. E per trarre una eredità positiva dalla pandemia non serve la rimozione ma l’innesco di un processo emotivo che coinvolga tutti.
Professore, la pandemia che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo cambierà i nostri comportamenti anche quando mascherine e contagi saranno un ricordo?
Impossibile prevedere il futuro ma non bisogna essere troppo ottimisti. Temo che il nostro comportamento a livello collettivo non cambierà. Perché ciò che viviamo diventi esperienza è necessario venga interpretato simbolicamente e acquisisca un significato cognitivo ed emotivo. Ma non mi sembra che a livello collettivo sia avvenuto questo processo.
Per innescarlo cosa servirebbe?
Finora le misure di restrizione, la richiesta per esempio di indossare la mascherina, erano basate sulla motivazione “la scienza dice”. Ma la scienza non riesce a toccare le ragioni profonde che orientano i comportamenti della persona nutrita da sentimenti ed emozioni. Quando manca la capacità di capire che i miei comportamenti hanno conseguenze su di me e sugli altri la prescrizione o l’obbligo cadono nel vuoto. Anzi. Sapere che qualcosa mi fa correre un rischio, specie nell’adolescenza, rende più appetibile un comportamento. Sarebbe necessaria una educazione di tipo civico. Un’educazione che aiuti le persone a sentirsi responsabili, non solo della propria salute ma anche quella degli altri, in particolare dei più fragili. Questo permetterebbe di trarre un insegnamento, un modo per migliorare la vita della comunità
A proposito di comunità, il caso di Modena è emblematico. Al momento sembra essersi chiuso con la decisione del giudice tutelare che ha accolto la richiesta dall’ospedale e il bambino affetto da cardiopatia potrà ricevere una trasfusione nonostante i genitori pretendano che il sangue sia di persone non vaccinate anti Covid-19. Esiste di fatto un profondo attrito nella società fra no vax e pro vax?
La protezione e la salute del bambino è un principio assoluto. La comunità ha il dovere di intervenire se il bene del bambino è in pericolo. Dietro a questi fatti c’è una cecità ideologica che preoccupa.
I genitori nel loro ricorso hanno addotto dei motivi religiosi poiché ritengono che nel vaccino ci siano cellule embrionali ricavate da feti abortiti.
Credo lo abbiano fatto nella speranza di dare maggiore validità al loro ricorso. La motivazione religiosa, come ad esempio quella adottata dai testimoni di Geova, gode di una maggiore tutela. Non sappiamo quanto sia strumentale o appartenesse a un’intima convinzione. Dall’esterno non possiamo sapere né giudicare. Rimane il fatto che una opposizione senza evidenze scientifiche dimostri il potere delle false credenze.
Siamo di fronte a un caso di ‘medicina on demand’, cioè della richiesta da parte dei genitori del piccolo di una risposta sanitaria in linea con le loro credenze?
È una delle conseguenze secondarie del pensiero diffuso nella nostra società secondo il quale ‘uno vale uno’. È evidente il mancato riconoscimento delle competenze, delle differenze e delle gerarchie sociali. Dire che contiamo e che le nostre idee contano tutte allo stesso modo è frutto della mutazione del nichilismo. Vedo una tendenza autodistruttiva, presente nei nostri sistemi sociali. Non significa che sia da approvare l’autoritarismo, ma che vadano riconosciute le competenze.
La rottura nella società fra pro vax e no vax, anche alla luce di questi eventi, è irreversibile?
Nel breve periodo non vedo la possibilità di una ricomposizione. Si potrà ricomporre quando le paure dei no vax verranno smentite dai fatti. La spaccatura rimarrà soprattutto se verrà rimosso il trauma derivato dalla pandemia.
Il rapporto a volte critico avrà delle ripercussioni anche in futuro?
Per il pro vax, il no vax incarna l’untore, cioè chi mette a rischio se stesso e la collettività. La persona che avverte questo stigma arriva a paragonarsi addirittura agli ebrei perseguitati dal nazismo. Questo tipo di emozione tende a essere più duratura e potrebbe sfogarsi nel risentimento che ha una componente distruttiva nei legami sociali. Gli strascichi non saranno facili da cancellare.
L’epidemia di Spagnola non ha impresso dei cambiamenti nei comportamenti della società cento anni fa. Forse, similmente, anche la pandemia da Covid non cambierà nulla?
La lezione che può venire richiederebbe una base che oggi è molto debole: essere consapevoli della fragilità della vita umana.
L’essere umano è un essere estremamente fragile.
Avere cura della vita significa essere attivi nelle condotte e che ognuno è responsabile della propria vita, di quelle degli altri e in particolare delle vite fragili.
Secondo lei, almeno nei programmi scolastici, potrebbe essere utile inserire l’educazione alla salute?
Anni fa con il professor Luciano Corradini abbiamo elaborato dei progetti di educazione alla salute basato su tre capitoli: stare bene con se stessi, con gli altri e con le istituzioni. Se educhiamo le persone in questo modo vediamo che il senso di responsabilità è maggiore e quasi non ci sarebbe bisogno di prescrizioni. La non cura del corpo, come ad esempio la mancata vaccinazione, viola il corpo degli altri. Dire che nessuno ha diritto di intervenire sul corpo è vero fino a un certo punto, perché senza un intervento sul corpo si compromette il corpo degli altri.
E per la comunità potrebbe essere utile spingere sulla narrazione di ciò che è avvenuto per colpa della pandemia?
Sì ma ci vogliono delle buone narrazioni che possono essere fiction, canzoni o romanzi. La narrazione aiuta a dare un senso alle vicende e alle esperienze. Anni fa ho scritto un libro dal titolo “Narrare per aiutare a vivere”, insieme a Luis Gallo e Riccardo Tonelli, in cui dicevamo che la narrazione è uno degli elementi dell’educazione, per aiutare le persone a sviluppare se stesse e la propria umanità.