“La matrice comune è l’impreparazione degli uomini (e dei ragazzi) alla libertà e all’emancipazione raggiunta dalle donne; un fenomeno che li spiazza provocando in loro frustrazione, paura e rabbia”. Maria Beatrice Toro, psicoterapeuta e docente di psicologia di comunità presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium, non ha dubbi. Con lei parliamo del dilagante fenomeno tra i più giovani delle violenze contro le donne partendo da due episodi di cronaca molto diversi ma con un fondo comune: le aggressioni di Capodanno a Piazza Duomo a Milano, e gli arresti – è notizia di questi giorni – dei tre giovani autori dello stupro di due ragazze perpetrato in una villetta di Primavalle, a Roma, nella notte di Capodanno 2021.
Sempre più giovani. I ragazzi, spiega l’esperta, “non sono pronti a gestire emotivamente la libertà delle coetanee e al tempo stesso la propria sessualità.
La disinibizione legata all’alcol e all’essere in gruppo-branco dove ci si esalta a vicenda, slatentizza istinti bestiali normalmente tenuti sotto controllo.
Un fenomeno che constato anche tra le mie pazienti adolescenti e che si verifica a casa di amici minorenni, della migliore amica, ed esprime l’incapacità della nostra società di gestire gli impulsi”.
Professoressa, c’è un legame tra questi comportamenti e la cultura dello sballo?
Oggi i ragazzini non si divertono se non bevono. Il loro stile di vita è costellato da momenti di perdita di controllo. Sono una generazione cresciuta con “tutto troppo presto” e vanno alla ricerca di sensazioni forti. Esposti fin da piccoli – per mancanza di cultura della genitorialità – ad esperienze iperstimolanti che non sono ancora in grado di reggere, in una società ipersessualizzata come la nostra anche il rapporto con la sessualità inizia troppo presto, spesso attraverso la pornografia.
In altri termini, ragazzini precoci sessualmente ma immaturi emotivamente?
Sì, e a questo si aggiunge il fatto che fin dalla nascita i genitori li mettono al riparo da ogni frustrazione. Se prendono un’insufficienza vanno a protestare con l’insegnante. Ragazzini cresciuti come piccoli lord all’ombra di un’ossessiva attenzione di genitori e nonni, totalmente impreparati alla frustrazione. Ho in terapia bambini che dormono a letto con i genitori, che se fanno i capricci non vengono portati a scuola. Crescono talmente insicuri che al banco di prova dell’adolescenza, se non si sentono scelti dal gruppo dei pari sviluppano una terribile ansia sociale. In Italia assistiamo ad un fenomeno a forbice: da una parte ragazzini che si ritirano socialmente e non escono più di casa; dall’altra giovanissimi che affrontano l’ansia disinibendosi, per lo più attraverso l’alcol.
Non tutti i ragazzini si fanno le canne, ma quasi tutti bevono
perché la nostra è una società che esclude, generando frustrazione e rabbia. E questo riguarda sia i ragazzi “emarginati” per etnia o condizioni economiche, sia quelli dell’alta borghesia, fascia sociale estremamente discriminatoria ed escludente. In fondo i ragazzi più protetti da questo tipo di frustrazione sono quelli appartenenti alle famiglie del ceto medio.
I responsabili di questi episodi di violenza mostrano un’assoluta mancanza di empatia con le vittime, nessuna percezione della sofferenza che provocano…
Ci troviamo di fronte ad una de-umanizzazione dell’altro, anche da parte di quelli che assistono e anziché intervenire filmano. Nel gruppo la vittima viene visualizzata come “altro” rispetto ai componenti del gruppo stesso. Un capro espiatorio per la propria rabbia.
La de-umanizzazione è sempre la precondizione per la violenza: una sorta di dissociazione che “legittima” l’abuso
attraverso il quale questi ragazzi fortemente frustrati si “riprendono” quanto non viene loro riconosciuto.
Eppure tra le aggressioni di Piazza Duomo e la violenza di Primavalle perpetrata da giovanissimi appartenenti a famiglie dell’alta borghesia ci sono delle differenze…
Nelle prime mi sembra prevalere il fare branco per sopraffare l’altro, un meccanismo istintuale e selvaggio che riduce la donna ad un essere sub-umano. Invece nel secondo caso leggo più un’incapacità di tollerare la libertà e l’emancipazione della donna, una frustrazione maturata e covata che diventa volontà di “punire” chi magari ti ha anche escluso.
Come intervenire per prevenire e porre un argine?
Scontiamo la scomparsa dell’educazione, dell’educazione ai sentimenti, al rispetto dell’altro e della donna. Nessuno oggi insegna l’affettività e il rapporto con le emozioni. La prima “scuola” dovrebbe essere la famiglia, ma anche la scuola ha un compito importante. Però i corsi antibullismo e antiviolenza, così come sono articolati, lasciano il tempo che trovano. Anziché interventi di esperti in aula – e lo dico da persona che viene invitata in molte scuole – ha molto più senso organizzare un’attività da svolgere insieme: un paio giornate di volontariato esponendo i ragazzi a quello che è il mondo reale e che loro, tranne rare eccezioni, non conoscono; una visita ad un centro antiviolenza o in un ospedale per far loro toccare con mano che cos’è la sofferenza e la fatica di molte persone. E’ molto più educativo metterli di fronte alla realtà che farli partecipare a miriadi di incontri con psicologi ed esperti. Ma c’è una questione di fondo che mi preoccupa.
Quale?
Il meccanismo di base della violenza di gruppo è quello del cosiddetto “in-group” (gruppo di noi) e “out-group” (gruppo di loro) ritenuto estraneo e nemico. Nei casi di cui abbiamo parlato il gruppo di ragazzi è l’“in-group”; “out-group” sono le donne che vengono de-umanizzate. Questa contrapposizione tra gruppi, che è il meccanismo alla base della guerra, in una prospettiva più ampia è il problema del nostro tempo:
la polarizzazione che stiamo vivendo in diversi ambiti della società e che predispone alla de -umanizzazione dell’altro ed allo scontro.